sabato 21 marzo 2015
​Un libro inchiesta sull'utero in affitto: la maternità surrogata raccontata dalle protagoniste. «Chi ci ingaggia non vuole sapere nulla di noi, nemmeno i nomi. Per loro siamo solo uteri». di Assuntina Morresi
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Cathy e Dennis vivono nel New Jersey. Lei ha 42 anni, lui è vicino ai cinquanta e ha un figlio, già grande, da un matrimonio precedente, ma non riescono ad averne insieme. Lei lo desidera tantissimo.  Decidono per l’utero in affitto dopo una trasmissione di Oprah Winfrey, che ne parlava. Nasceranno due gemelli, maschi, a Hyderabad in India, con il liquido seminale di Dennis e ovociti da donatrice. Rajappa e Sharada vivono a Andhra, in India, sono sposati da più di venti anni e non hanno figli. A Rajappa hanno consigliato di lasciare sua moglie per una più giovane e fertile, ma lui non vuole: cercano una madre surrogata e troveranno Manju, che partorirà a Bangalore due gemelli, maschio e femmina, concepiti con i gameti della coppia.  Manisha vive a Kathmandu, in Nepal, con un marito senza lavoro e due bambini piccoli. Si è fatta sterilizzare. Sua sorella Bina le svela di aver risolto i suoi problemi economici vendendo prima i suoi ovociti, e diventando poi madre surrogata: la convince ad andare con lei a Mumbai, in India, per fare lo stesso. Manisha non capisce la lingua, contratterà la vendita dei suoi ovociti tramite Bina, che però si spinge troppo oltre.  Stimolazioni pesanti e ravvicinate - 25 ovociti, nell’ultima - le provocano la sindrome da iperstimolazione ovarica: Manisha sta malissimo. Bina, per pagare le cure, sarà di nuovo madre surrogata, stavolta per due gay spagnoli. Il bambino nella sua pancia è concepito con il seme di uno dei due e con gli ovociti di sua sorella Manisha.   Sumi è alla sua seconda gravidanza surrogata, a Anand, in India. Ha avuto già due gemelli da una coppia di giapponesi e adesso ne aspetta di nuovo da Dora e Ben, australiani. Nasceranno un maschio e una femmina, che Sumi allatterà - ben pagata - per tre mesi.  Dall’Australia i contatti continueranno. La sua amica Disha, invece, è stata ingaggiata da una coppia coreana: aveva tre embrioni in pancia, ma uno lo ha eliminato il medico. I coreani sperano di avere maschi, ma rimarranno delusi, e per le due neonate Disha non riceverà nessun extra in denaro. Ram e Meena, sposati da dieci anni, vivono a Chennai in India. Meena si sente colpevole per essere sterile, anche per l’invadenza dei suoceri che glielo fanno pesare. Scelgono la via dell’utero in affitto e trovano una ragazza, Alice, in forti difficoltà economiche perché è rimasta vedova a vent’anni, quando era incinta di sette mesi. Ha donato ad altri i propri ovociti, darà alla coppia due gemelle e seguirà la famiglia a Londra, per allattare le piccole e per aiutare Meena, senza dire a nessuno che è stata lei a partorirle. La ricompensa economica sarà generosa.  Sono le storie raccontate da Gita Aravamudan nel suo 'Baby Makers. A Story of Indian Surrogacy' (Produttori di bambini. Una storia di surrogazione indiana, Harper Collins Publishers, India, 2014).   L'autrice è firma di quotidiani e periodici, da 'Hindustan Times' a 'The Times of India', oltre che di saggi come quello sulle bambine mai nate 'Disappearing Daughters: the tragedy of female foeticide' (Figlie scomparse: la tragedia del feticidio femminile). Questo suo ultimo libro è un’originale inchiesta sull’utero in affitto che intreccia episodi ricostruiti realisticamente e fatti documentati, insieme a importanti contenziosi giuridici. Ne risulta un grande e inquietante affresco della maternità surrogata, di cui l’India rappresenta oramai uno snodo mondiale: un enorme mercato con profitti da capogiro: 445 milioni di dollari all’anno, secondo una stima del 2010. Le protagoniste emergono con tutti i loro sentimenti, dall’orgoglio di portare a casa i soldi per far studiare i figli, alla rassegnazione per la propria condizione, specie per l’abbandono dei piccoli appena nati. «Disha non voleva piangere, ma sentiva le lacrime scendere lungo le guance. Aveva sempre saputo, fin dall’inizio, che i bambini non erano i suoi. Lei non era legata a loro in alcun modo. Eppure... li aveva portati per così tanti mesi. Aveva sofferto le nausee al mattino, il dolore, la fatica. Era stata così attenta a tenerli protetti. Che diritto avevano queste persone di essere infelici perché i nati erano femmine? Avrebbe voluto inseguirli e portarsele via con sé».   «Nessuno sa cosa passiamo. Quell’inutile marito che parla solo di soldi, soldi, soldi. E quei genitori che comprano i nostri servizi? Non sanno neanche la metà di quel che ci capita. Non hanno mai dovuto sopportare tutta quella roba terribile. Le nausee, il dolore, le doglie. Non sanno come ci si sente con quei piccoli piedi calciare dentro lo stomaco. Io canticchiavo loro le ninnenanne. Ma lo sanno, o gliene importa qualcosa? Queste persone che vengono e ci ingaggiano non vogliono mai guardarci in faccia o sapere i nostri nomi. Per loro siamo solo uteri». Dall’altra parte, c’è l’ostinazione di avere figli a ogni costo nonostante i ripetuti fallimenti della fecondazione in vitro, che però si trasforma in terrore quando stanno per nascere davvero: «Con chi si dovrebbe legare? Con due feti invisibili, nell’utero di un’aliena? Feti con cui lei non ha alcun legame biologico, né emotivo?». E’ completo il controllo dei medici sulle madri surrogate, e forte la volontà di convincerle, e di convincersi tutti che «sarebbe stata solamente una transazione commerciale pulita, senza coinvolgere nessuna emozione».   Sullo sfondo i casi famosi: la prima surrogata americana, che a otto anni dal parto si pente e racconta ai media una storia tutta diversa da quella sbandierata durante la gravidanza. E poi Baby M. e il bambino giapponese che il divorzio dei committenti ha reso apolide e che, dopo un lunghissimo contenzioso internazionale, è affidato in Giappone alla nonna paterna. E, ancora, i gay americani Mike e Mike, che nel loro blog raccontano la storia delle due bambine avute a Mumbai: hanno usato lo sperma di entrambi e gli ovociti di una sola donatrice, perché le piccole fossero legate geneticamente fra loro. Gli embrioni sono stati impiantati in due differenti madri surrogate, rimaste incinte contemporaneamente. Rose, figlia di un Mike, è nata il 24 marzo, ed Eva, figlia dell’altro Mike, il 12 aprile successivo. Una clinica, due bambine, tre madri e due padri: costo totale 60mila dollari. Negli Usa avrebbero pagato il doppio, più o meno. In India non c’è ancora una legge che regola la surroga materna, ma linee guida stabiliscono che il nato deve essere legato geneticamente almeno a uno dei due genitori committenti, «perché il legame di amore e affetto con un bambino viene innanzitutto da una relazione biologica». E in mezzo a tutte le storie raccontate da Gita Aravamudan emergono i problemi per passaporti e cittadinanza: nato in India, da surroga nepalese, con genitori committenti europei, americani o australiani: chi deve dare il visto? E soprattutto: chi è la madre? La committente, ma anche chi ha partorito. E chi ha dato i propri ovociti non può essere considerata una totale estranea.   Cathy, Sharada e Meena piangono di felicità nel vedere i neonati, mentre Disha e Sumi soffrono la mancanza dei piccoli appena partoriti, e Bina accarezza la sua pancia, perché sa che il bambino che porta è geneticamente di sua sorella, e lo sente più suo. Un simile campionario di casi non può essere privo di conseguenze: tanto da spingere Aravamudan a sostenere che «il concetto di maternità va ridefinito» e, coerentemente, a dire nella conclusione che «in questo mondo che cambia, dove le nazionalità e le religioni, le classi e i generi si uniscono mischiandosi per produrre bambini, lo sperma, gli ovociti e l’utero hanno acquistato un significato diverso». Ne scaturisce dunque una posizione problematica ma senza pervenire a un giudizio, ponendo semmai domande, prendendo atto dei cambiamenti radicali e delle implicazioni anche gravi ma senza opporvisi, quasi che l’autrice di questo importante contributo alla comprensione di un fenomeno drammatico fosse convinta della loro ineluttabilità. Non parliamo di scenari futuribili ma di un presente ben consolidato, che sta accadendo adesso ma che ancora non è pienamente compreso in tutta la sua inquietante portata.
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