giovedì 5 agosto 2021
Terminati i lockdown, le aziende faticano a richiamare le persone e devono fare i conti con una fuga di talenti. I Millennials ora sono meno interessati alla carriera
Incentivi per tornare in ufficio: la sfida delle imprese inglesi

Ansa

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Non sembrerà vero, ma tra le rovine del mondo del lavoro britannico devastato dalla pandemia è rimasto qualcosa di buono. I numeri, certo, non ispirano ottimismo: oltremanica, oggi, a un anno e mezzo dal primo lockdown, una persona ogni 20 non ha più un impiego, quasi 12 milioni di lavoratori sono in cassa integrazione, 5,5 milioni di famiglie sbarcano il lunario con gli assegni erogati dallo Stato. Il dibattito sul ritorno alla routine lavorativa, avviato il 19 luglio con la sospensione di quasi tutte le misure di contenimento del virus, è tuttavia pervaso dalla tentazione di guardare alla parte mezza piena del bicchiere. Nonostante la variante Delta continui a macinare migliaia di contagi al giorno, rimandando a chissà quando la fine della pandemia, nell’opinione pubblica sembra prevalere l’urgenza di trasformare un disastro senza precedenti in un’opportunità per reinventare il concetto stesso di lavoro, per renderlo meno pesante, più appagante e meglio distribuito. Scevro, se possibile, dalle distorsioni stratificatesi nel corso degli anni.

Un’indagine della società di assicurazioni Aviva ha rivelato che il 47% degli impiegati è oggi meno interessato alla carriera rispetto al passato perché la pandemia ha messo in discussione il modello di vita fondato solo sul successo professionale. L’esperienza dell’emergenza sanitaria, segnata dal confronto con la malattia, la paura e la fragilità, ha portato molti a ridimensionare le aspettative legate al lavoro a favore di una vita più semplice e rilassata, nutrita dall’affetto della famiglia e dalle passioni personali. Secondo una ricerca realizzata in Irlanda e Regno Unito da Personio, azienda di software per la gestione delle risorse umane, sono quattro su dieci gli impiegati che proprio negli ultimi mesi hanno deciso di licenziarsi e cambiare lavoro. L’ondata di Covid-19 viene vissuta come un’occasione per abbandonare la routine, spesso logorante quanto inappagante, e ricominciare con qualcosa di nuovo e gratificante. Le aziende, sottolinea lo studio, potrebbero essere costrette a gestire un’emorragia di talenti che affonda le radici in anni di politiche “negligenti” basate sullo sfruttamento delle risorse umane (paghe congelate, riduzione dei benefit, avanzamenti di carriera inesistenti) piuttosto che sulla loro valorizzazione.

La necessità di cercare un lavoro che possa meglio conciliarsi con vita privata e interessi personali è particolarmente sentita nella fascia della popolazione compresa tra i 25 e i 40 anni, nella cosiddetta generazione Yolo (“you only live once”, si vive una volta sola), professionisti nel pieno della carriera in genere favorevoli a introdurre in azienda la settimana lavorativa di 4 giorni senza variazioni di salario. Non è un caso che un vero e proprio sindacato, nato con l’intento di rivoluzionare il tradizionale modello d’impiego dal lunedì al venerdì, sia nato tra i giovani giornalisti di Vice Media Group, la società a cui fa capo uno dei magazine online, Vice, più amati dai Millennials.

In tempi di crisi la pretesa di lavorare di meno, mantenendo il compenso invariato, potrebbe suonare inappropriata. Peter Cheese, presidente dell’associazione che rappresenta i professionisti britannici delle risorse umane (Cipd), non la pensa invece così. In un’intervista a Politico, Cheese si è detto convinto, piuttosto, che il Paese debba cogliere l’«opportunità generazionale» offerta dalla pandemia per una revisione radicale del lavoro che “può e dovrebbe” essere rinnovato. Il modello dei 4 giorni lavorativi alla settimana, sperimentato con successo in diversi paesi del mondo (vedi Islanda, Spagna e Nuova Zelanda), ha precisato, «è solo uno dei tanti» da valutare alla luce di altri fattori intervenuti a sconvolgere il mercato del lavoro. La Brexit, per esempio, è uno di questi. Se i lockdown disposti a contenere la diffusione del coronavirus hanno bruciato milioni di posti di lavoro, il divorzio del Regno Unito dall’Unione Europea e il conseguente irrigidimento delle misure sull’immigrazione hanno, dall’altro lato, lasciato alcune aziende a secco di manodopera da assumere per affrontare la ripartenza. Il tema dell’occupazione flessibile è da tempo parte del manifesto del partito conservatore britannico. Nel 2018, prima della pandemia, l’allora primo ministro Theresa May istituì una commissione incaricata di indagare quali fossero gli ostacoli al lavoro agile e di mettere a punto delle raccomandazioni per superarle. A febbraio scorso, nel pieno dell’emergenza Covid-19, il premier Boris Johnson ha rinnovato per altri 18 mesi l’incarico degli esperti, guidati proprio da Cheese, chiedendo di indagare come sostenere i modelli “ibridi” di impiego emersi durante la pandemia e come, a lungo termine, istituzionalizzarli.

La commissione ha messo a punto una sorta di prontuario, intitolato “Felice di parlane”, per invogliare imprese e lavoratori a confrontarsi sui benefici del lavoro flessibile per entrambe le parti. Dialogo reso oggi ancor più urgente dalla necessità di pianificare il ritorno alla normalità dopo il lockdown che – Johnson si è preoccupato di sottolinearlo – verrà gestito in maniera autonoma dalle aziende senza l’imposizione di diktat governativi. Almeno per il momento. Secondo un’indagine di YouGov, il 40% dei lavoratori preferirebbe continuare a operare in “smart working”, soluzione che favorisce un consistente risparmio in tempo e denaro soprattutto ai pendolari “di lunga percorrenza”. In città come Londra, per esempio, l’abbonamento annuale per viaggi in treno o metropolitana verso l’ufficio, lunghi fino a tre ore al giorno tra andata e ritorno, varia tra 1.400 e 3.800 sterline a seconda del raggio chilometrico. Anche le aziende, va sottolineato, traggono vantaggio dalla riduzione degli spazi e, in maniera proporzionale, dai risparmi sull’affitto degli uffici. Concedere ai dipendenti che lo chiedono la possibilità di usufruire per sempre della modalità “smart” del lavoro non è tuttavia facilmente percorribile.

Al momento solo Spotify, piattaforma di contenuti audio, ha aperto a tale opzione. La maggior parte delle aziende, interessate a trovare un compromesso che non metta a rischio produttività e motivazione dei collaboratori, valuta soluzioni, appunto, ibride: giorni in presenza, alternati a giorni in remoto. Questa gestione garantisce anche quel minimo di socialità importante per nutrire relazioni, spirito di collaborazione, senso di appartenenza al gruppo soprattutto tra chi è stato assunto da poco. In questo senso si stanno organizzando, giusto per citarne alcune, società high-tech come Google, Amazon e Apple, banche come Barclays e NatWest, società di consulenza come Deloitte e PricewaterhouseCoopers, editori come Bloomberg.

Nel contesto di questo stravolgimento non mancano tuttavia gli irriducibili del lavoro in presenza, aziende a cui la direzione ha affidato il preciso mandato di riportare i dipendenti in presenza, anche se durante la pandemia si è provveduto a fornirli di scrivanie, sedie e pc da tavolo da installare a casa. Visto da David Solomon, boss di Goldman Sachs, il lavoro in remoto è “un’aberrazione” da correggere il prima possibile. Alcune banche della City stanno mettendo a punto una serie di incentivi per favorire il ritorno alle postazioni fisse dal primo settembre: tecnologia altamente sofisticata, caffè e cibo gratis per la pausa, eventi musicali e grigliate con i colleghi alla fine della giornata. Qualche azienda si è offerta persino di pagare parte dei costi per il trasporto. Soluzioni non proprio alla portata di tutti che interpretano lo sforzo di una società protesa a inventare la cosiddetta “nuova normalità”.

(1 - continua)

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