In quei filmati senza umanità la fine del «citizen journalism»
domenica 7 agosto 2022

Quanto avvenuto la scorsa settimana a Civitanova Marche – l’uccisione dell’ambulante Alika Ogorchukwu sotto l’occhio di decine di telefonini – non è stato solo l’epilogo drammatico di una stupida diatriba fra un arrogante con gravi disturbi della personalità, Filippo Ferlazzo, e la sua vittima. No, quanto accaduto rappresenta la fine del citizen journalism così come l’abbiamo conosciuto sin qui.

Decollato in occasione delle 'primavere arabe', a cavallo tra il 2020 e il 2011, il racconto giornalistico a opera di semplici cittadini – digiuni di McLuhann, ma armati di smartphone, quasi mai di ultima generazione – è diventato via via, dai tumulti di piazza Tahir in Egitto alle rivolte di Gezi Park in Turchia, fino alle recenti e non meno significative convulse vicende consumatesi in Hong Kong e in Myanmar, un sinonimo di voglia di democrazia, occasione di libertà, strumento di denuncia. Laddove non riuscivano ad arrivare gli inviati dei grandi network, a documentare soprusi altrimenti destinati al silenzio ce la facevano oscuri e improvvisati reporter. Immagini tremolanti, di bassa qualità tecnica eppure di altissimo valore in ordine alla testimonianza, sono diventate altrettante pagine della storia recente. Quelle immagini raccontavano di deboli perseguitati dal potere e di un potere che veniva pubblicamente svergognato per la sua violenza esasperata e oscena.

A Civitanova Marche è andato in onda un altro film. Quelli che hanno documentato gli eventi col cellulare – rimanendo a distanza: per paura, per prudenza o per insensibilità – di fatto sono rimasti passivi a documentare l’agonia di un uomo, massacrato di botte da un cittadino come loro, soltanto più impulsivo e violento e probabilmente malato di loro. La domanda che Michela Marzano si è fatta sabato 30 luglio sulla 'Stampa' («Perché nessuno di loro è intervenuto? Perché il primo impulso è stato quello di filmare l’aggressione invece che bloccare l’assassino? ») è la medesima che alberga nel cuore di tanti e che Marina Corradi domenica scorsa, 31 luglio, formulava così sulle pagine di 'Avvenire': «Quelli che riprendevano la scena con lo smartphone da debita distanza, con lo zoom, chi sono, e come hanno potuto restarsene a guardare, per poi condividere sui social il video del massacro di un uomo?».

Rispondere non è certo impresa semplice. E tuttavia è difficile scacciare dalla mente il terribile sospetto che, se fosse toccato a noi, avremmo rischiato di cadere nella medesima tentazione.

Non siamo né migliori né peggiori degli spettatori filmanti. Il punto è che tutti siamo immersi, anzi: imbevuti, in una perversa 'cultura del narcisismo' che i social non hanno, di per sé, creato ma di sicuro alimentano pericolosamente, una cultura del narcisismo che si diffonde alla velocità di un virus e per la quale sembrerebbe non esserci un antidoto efficace. Siamo così abituati a documentare istintivamente quanto accade attorno a noi, pur di raccogliere il plauso di chi ci premierà con i ' like' perché eravamo al posto giusto nel momento giusto, che fatichiamo sempre più a tracciare il confine fra realtà e finzione. Con tutto quel che ne consegue. Ovvero: se stanno uccidendo una persona, diventa più interessante raccontare minuto per minuto il fatto, piuttosto che salvare la vittima, involontaria co-protagonista di un horror che mai avrebbe immaginato. Guia Soncini è autrice di un libro, 'L’economia del sé', che denuncia con forza la deriva della tentazione dell’esibizionismo che, inesorabilmente e costantemente, ci avvolge. In quel libro scrive con la sua graffiante ironia: «Il bello di questo secolo è che, quando pensi che il senso del pudore sia azzerato, esso ti sorprende scendendo sotto lo zero».

Datemi pure dell’inguaribile nostalgico, ma mi sono sorpreso a chiedermi come si sarebbero comportati Oriana Fallaci o Tiziano Terzani davanti alla brutalità di quel giorno a Civitanova. E mi sono risposto che sì, sarebbero entrati nella mischia. Senza pensarci un secondo di troppo. A costo di perdere certamente uno scoop, ma con la speranza di guadagnare una vita.

Docente di Media e informazione DAMS, Università Cattolica di Brescia

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: