sabato 13 dicembre 2008
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La Cgil c’è, e non ci stupisce. È un grande sindacato, radicato nei luoghi di lavoro, soprattutto quelli tradizionali di ampie dimensioni. La sua potenza organizzativa non va mai sottovalutata, così come la capacità di mobilitare impegno e passione di migliaia, anzi milioni di persone che meritano rispetto. Al di là della guerra di cifre sulle piazze piene e i luoghi di lavoro svuotati solo in parte, così, lo sciopero può dirsi tecnicamente riuscito. Non una prova di forza schiacciante, ma neppure un flop. Una "equilibrata" via di mezzo per una protesta messa in conto fin dall’estate scorsa, una scelta anzitutto identitaria: ci fosse o no la crisi, la Cgil doveva stare in piazza a "fronteggiare" il governo Berlusconi.Ma per quanto siamo convinti che l’arma estrema dello sciopero generale fosse del tutto inadatta nella situazione attuale, ciò che ci preoccupa assai più dell’errore tattico sul "mezzo" è l’inadeguatezza strategica del "fine" proposto dal sindacato di Corso d’Italia. È la pochezza della piattaforma avanzata con la manifestazione. Dietro allo slogan «più salario, più pensioni, più lavoro e più diritti» (e chi non lo vorrebbe?) sta infatti essenzialmente una proposta: la detassazione delle tredicesime. La richiesta principale del sindacato di sinistra, cioè, non è nient’altro che uno dei punti qualificanti del programma col quale il centrodestra ha vinto le elezioni. Un evidente cortocircuito. Più ancora, un’ipotesi dagli esiti incerti, come tutte le una tantum, epperò assai costosa: circa 8 miliardi di euro.Guglielmo Epifani, con ogni probabilità, non ha torto quando dice che la risposta finora messa in campo dal governo risulterà inadeguata rispetto alla portata della recessione. Ma la contro-proposta del sindacato appare addirittura peggiore, perché brucerebbe in un intervento spot sui consumi parecchie risorse, senza dar vita a un cambio di passo, mancando l’obiettivo di impostare una qualche vera riforma. Senza contare che dispiegherebbe i propri effetti sempre nel ristretto insieme di lavoratori dipendenti e pensionati. Perché per i collaboratori o i giovani che intraprendono un lavoro autonomo, o ancora per coloro che boccheggiano al di sotto della soglia di povertà, di quale tredicesima parliamo? Sì, il governo ha previsto poco - troppo poco - finora per i giovani precari e per le famiglie. Ma la Cgil sembra dedicarvi attenzioni ancora minori: dal Protocollo sul welfare dello scorso anno, non certo centrato sui bisogni dei giovani, fino ad oggi, con l’esclusione dal proprio orizzonte dell’ambito familiare, che invece è la chiave di volta per rispondere a molti bisogni: dalla povertà dei minori all’assistenza agli anziani. Proprio su questo sarebbe invece necessario creare le condizioni per un intervento strutturale già nei prossimi mesi, anche "inchiodando" il governo alle proprie responsabilità.Dietro le bandiere rosse, manca il colpo d’ala, una progettualità vera, la capacità di mettersi in gioco e di rischiare il cambiamento. E qui si apre il bivio che la Cgil si troverà ad affrontare da oggi, il giorno dopo lo sciopero. Scontata l’impossibilità di "collaborare" con un governo che si ritiene "nemico" ¿ e che in verità fa di tutto per risultare tale, tra dichiarazioni al veleno e incontri riservati ¿ un sindacato che non voglia ridursi a mera forza d’opposizione dovrebbe impegnarsi allo spasimo nel confronto con il sistema delle imprese. Per trovare risposte alla crisi, ai bisogni dei lavoratori, ma soprattutto per favorire la nascita di qualcosa di nuovo, che dia slancio al sistema produttivo. L’occasione è già sul tavolo e si chiama riforma della contrattazione. È la base per costruire anche tanto altro. Non coglierla significherebbe condannare il mondo del lavoro a una spaccatura ideologica e il Paese ad assistere impotente all’estendersi della crisi.
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