sabato 2 gennaio 2010
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L’idea di un memoriale per i caduti italiani nelle missioni internazionali di pace, lanciata dopo la morte di sei militari a Kabul, oltre che doverosa, testimonia l’impegno del nostro Paese nell’attività di peace-keeping e ci ricorda i terribili costi umani pagati. Basti pensare che, dal secondo dopoguerra, l’Italia ha partecipato a più di 120 missioni di pace guidate dall’Onu, dalla Nato e dalla Ue. O al fatto che abbiamo circa settemila soldati permanentemente impegnati fuori dai nostri confini, con un notevole sforzo organizzativo e finanziario. Il nuovo anno non porterà certamente diminuzioni significative del nostro impegno per stabilizzare le tante aree di crisi internazionale e favorire la ricostruzione. Da tempo Afghanistan, Balcani e Libano sono le regioni in cui il nostro impegno è maggiore. Fra tutte, la nostra partecipazione alla missione a guida Nato in Afghanistan (Isaf) è quella più pericolosa. Proprio per ripristinare un scenario di sicurezza profondamente deteriorato, molti dei Paesi partecipanti – fra cui il nostro – hanno acconsentito ad aumentare le truppe sul campo, nell’ambito di una nuova strategia complessiva. In verità, le notizie che giungono da Kabul in questi giorni non inducono all’ottimismo: dobbiamo quindi essere consapevoli che più soldati significa più rischi, e potenzialmente più perdite, anche alla luce della capacità degli insorti e dei terroristi di sviluppare nuove tattiche, colpendo in modo inaspettato. L’aumento dei soldati in Afghanistan sarà compensato da una progressiva diminuzione del nostro impegno nelle altre principali missioni di pace, nei Balcani e in Libano. Nei territori del Kosovo e della Bosnia-Ezegovina, del resto, la situazione pur non essendo ancora completamente stabilizzata, è infinitamente meno problematica. Dopo dieci anni e più di presenza è quindi opportuno favorire in ogni modo il passaggio di competenze alle autorità locali, riducendo ruolo, visibilità e numero dei contingenti impegnati nelle missioni a guida Nato e Ue. Una riduzione del numero dei militari è anche prevista per il nostro impegno in Libano, probabilmente la missione che ha dato i risultati migliori, anche se è quella partita più in sordina. L’azione di peace-keeping fortemente voluta dall’Italia, a seguito del conflitto del 2006 fra Israele ed Hezbollah è stata talora giudicata sprezzantemente all’estero e all’inizio guardata con diffidenza da Israele. Al contrario, si è visto come la capacità di agire coinvolgendo tutti gli attori in gioco, assumendo politiche e comportamenti davvero indipendenti e neutrali, abbia finito per rendere credibile la presenza del contingente internazionale, preservando quell’area dallo scoppio di altre violenze. Ma il nuovo anno dovrebbe portare anche una riflessione sulla necessità di riformare gli strumenti­quadro con cui l’Italia partecipa alla stabilizzazione militare, economica e sociale delle aree di crisi o colpite da emergenze. In questo decennio l’azione dei militari nelle attività di ricostruzione, assistenza e cooperazione è andata enormemente aumentando, facendo progressivamente crescere i contatti con l’universo della cooperazione civile e delle Ong. Un cambiamento inevitabile, che ha imposto a queste realtà profondamente diverse di interagire sempre più, non senza diffidenze, frizioni e resistenze. Per rendere maggiormente efficace la nostra azione nei diversi contesti è tuttavia sempre più necessario aggiornare il vetusto quadro legislativo e le complesse norme che regolano il nostro impegno ai diversi livelli militari e civili della cooperazione e assistenza. È la nuova realtà delle missioni di pace che ci richiede di favorire, pur senza confusione di ruoli, un miglioramento della capacità sinergica fra corpi centrali dello stato, organizzazioni della società civile, del mondo scientifico e del privato, tanto più che le ristrettezze del bilancio ci impongono di limitare al massimo sprechi e inefficienze.
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