sabato 25 aprile 2009
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Morire di scuola. Il paradosso più atroce. Un liceo, l’istituzione che dovrebbe accompagnare i ragazzi a diventare uomini, aprendo la strada alla bellezza del sapere, si trasforma all’improvviso in un incubo mortale. Un intreccio soffocante di sensi di colpa e di nodi inestricabili, di suggestioni malintese e di obblighi tanto opprimenti, da indurre un quindicenne a gettarsi da una finestra del terzo piano della scuola. Quell’impulso di morte che talvolta può affacciarsi alla mente di un adolescente, questa volta ha messo a tacere la ragione, ha prevalso sulla voglia di vivere, ha oscurato il sorriso. Un attimo di follia, un salto nel vuoto, la fine di una giovane vita. Perché? Il compito di greco appena concluso si era rivelato troppo difficile? Temeva di non riuscire a sopportare il peso di un giudizio negativo? Aveva sperimentato che la sua preparazione, a cui magari aveva dedicato molte ore il giorno precedente, era risultata fuori registro rispetto alle richieste dell’insegnante? Domande ormai inutili. Interrogativi incapaci di fornire ragioni esaustive a una scelta di morte che nessuno potrà mai davvero spiegare. Rimane il dolore cupo di una famiglia, lo smarrimento attonito dei compagni di classe e dell’insegnante che infatti, subito dopo la tragedia, ha avuto un malore ed è stato accompagnato all’ospedale. Ma, di fronte a un episodio come quello capitato ieri nel Frusinate, tutti coloro che ogni giorno – da genitori, da insegnanti, da educatori – si misurano con l’irrequietezza e l’imprevedibilità del mondo giovanile non possono non avvertire il sapore amaro della sconfitta. Perché le scorie esiziali che si sono depositate sull’anima del giovane liceale e per un attimo – ma quell’attimo è stato fatale – gli hanno fatto preferire l’abisso della morte all’entusiasmo della vita, sono le stesse che respirano i nostri figli, i figli dei nostri amici, i ragazzi che ogni giorno incontriamo davanti alle scuole, alle fermate dell’autobus, nei centri commerciali. E quelle scorie, di cui tutti noi adulti, in modo diverso, siamo responsabili, hanno un nome e un cognome. Sono scorie venefiche le sollecitazioni negative di una società che ha fatto del successo ad ogni costo uno dei suoi dogmi indiscutibili. Sono scorie altrettanto terribili quegli atteggiamenti falsamente consolatori sempre più diffusi che rendono tanti giovani – ma anche non pochi adulti – sempre più incapaci di trasformare gli inevitabili momenti di crisi in risorse per una nuova crescita e che vorrebbero arrotondare ogni spigolo, spianare ogni salita, rendere semplice, agevole, entusiasmante ogni momento della vita. Però, al contrario di quanto dice la pubblicità, non sempre si può ' vincere facile'. Anzi, molto spesso bisogna accontentarsi di pareggiare o anche di perdere con dignità, magari dopo aver buttato nella mischia tutto l’impegno, le capacità, le conoscenze in nostro possesso. « Ce l’avevo messa tutta » . Può essere vero, ma qualche volta non basta. Qualche volta la vita – come la scuola – presenta situazioni così complesse e inattese che buona volontà, impegno e preparazione non sono sufficienti a risolvere tutto. Ecco perché dobbiamo tornare a insegnare ai nostri ragazzi – e forse dobbiamo convincercene noi per primi – che anche tra i banchi accettare una sconfitta può talvolta preparare una vittoria più appagante. Senza difficoltà non si impara. Senza stringere i denti non si può conoscere. E se non si conosce non si può crescere davvero. Cioè non si riesce ad intuire che la vita è sempre e comunque degna di essere vissuta. Anche se talvolta ci dimentichiamo che, al di là delle nuvole, il sole continua a splendere.
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