Il vero è un intero e ha carne
domenica 28 maggio 2017

Qualche settimana fa, viaggiando in treno verso New York, sono stata colpita dalla pubblicità di una radio indipendente: un uccellino cinguettante sopra una banda rossa dove campeggiava la scritta: Tweets are not the whole story. I tweet non sono l’intera storia. Un bello spunto per riflettere sul tema del rapporto tra media e verità. Il vero è un intero. Non “tutta la storia”, ma “la storia intera”. Non la completezza, ma la complessità, la ricchezza delle dimensioni. «Prima di tutto, non cercate di essere esaustivi», raccomandava Roland Barthes. Paradossalmente la pretesa di dire tutto fa un pessimo servizio alla totalità, che è fatta anche di invisibile e indicibile.

Di mistero. Cosa significa concretamente preservare questa ricchezza senza pretendere di esaurirla? Intanto restituire e rispettare la pluralità delle voci. Superare la contrapposizione sterile, il pensare che la ragione stia tutta da una parte e il torto tutto dall’altra. Cercare di capire chi non la pensa come noi. Per esempio, la xenofobia va contrastata: ma se non ascoltiamo, prendendole sul serio, le paure, le fatiche, le delusioni di chi già in condizioni di precarietà si sente ulteriormente minacciato ci troveremo complici spocchiosi dei populismi e delle derive sicuritarie che mortificano la dignità umana. Pluralità significa articolazione di prospettive (antropologica, politica, economica, sociale, tecnica) attorno alla questione dell’umano e reciproca implicazione di piani differenti: materiale, immateriale, spirituale. Nella consapevolezza delle interdipendenze: perché, come ci ricorda papa Francesco, in un mondo che si presenta come un ammasso di frammenti in realtà «tutto è connesso».

Significa anche il coraggio di liberarsi dalla gabbia faziosa dei criteri di notiziabilità, dalle agende mainstream. Martin L. King sosteneva che «le nostre vite cominciano a spegnersi nel momento in cui diventiamo silenti rispetto a cose che contano», indipendentemente dal fatto che abbiano i riflettori puntati: nell’intero c’è anche ciò che non ha visibilità né voce, eppure urla. Significa capire che alla verità si arriva in maniera processuale, con la pazienza di camminare.

Non è relativismo, tutt’altro. È rispetto del mistero, di quell’intero che ci contiene e sempre ci supera. «La verità è inesauribile e inoggettivabile» scriveva il filosofo cattolico Luigi Pareyson. Questo significa senso del limite, ma anche responsabilità. Lo afferma con chiarezza papa Francesco nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali di quest’anno: «La vita dell’uomo non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti ». Senza dimenticare l’umiltà, ci è richiesto di esporci, metterci la faccia, prenderci la responsabilità del nostro dire.

Oggi si tende a fare esattamente il contrario: si parla con arroganza, nascondendosi dietro la presunta oggettività dei fatti. Un ultimo aspetto almeno va sottolineato: l’intero non è astratto, ma concreto. Un “concreto vivente” che non si esaurisce nella sua materialità, e che tuttavia ha carne. Il criterio dell’intero aiuta allora a smascherare la pseudoconcretezza di tanta cattiva informazione: l’intensità dell’insulto come presunta marca di autenticità o lo schieramento come adesione acritica a una parzialità che diventa ideologia. Un’altra sollecitazione preziosa: Come si comunica la speranza? Riassumerei in tre parole: contagio, esempio, prossimità. Il Papa parla della forza dell’esempio e dei santi: «Canali viventi, persone che si lasciano condurre dalla Buona Notizia in mezzo al dramma della storia»; «fari nel buio di questo mondo, che illuminano la rotta e aprono sentieri nuovi di fiducia e speranza».

Non sempre troviamo in noi la forza, non siamo eroi. Per diventare testimoni bisogna lasciarsi contagiare. Il contagio è forma concreta e integrale di comunicazione: tutto l’essere è coinvolto. L’esempio contagia con una normatività debole, che fa appello alla nostra libertà: non per imitare, riprodurre, ma per lasciarci ispirare, trovare la nostra via. La comunione dei santi è anche questo: la feconda circolazione del bene nei network delle nostre vite. La via di Gesù è via di concretezza: il comandamento è «ama il tuo prossimo». Il «più vicino», quello che ci tocca. Da questo contatto viene la prospettiva, il ritmo del nostro vivere e comunicare: il «ritmo salutare della prossimità».

Non è dunque appena il fact checking (la verifica dei fatti), ma la prossimità il criterio per contrastare le fake news. C’è una nostra responsabilità in questo: meno ci saremo fatti prossimi, più dipenderemo dalle rappresentazioni stereotipate dei media. Concretezza è trattare con le persone e non le categorie. Non coi dati, ma con corpi, volti. L’incarnazione è il criterio: la verità o è incarnata o non è. Ricordiamocelo quando apriamo il giornale, accendiamo la tv, connettiamo i nostri dispositivi.

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