giovedì 7 febbraio 2019
Serve un cambio di paradigma, occorre evitare di spaccarsi ulteriormente tra Guelfi e Ghibellini, serve recuperare lo spirito di corpo che fece grande il Paese
Se il problema non è l’Europa ma l’Italia divisa
COMMENTA E CONDIVIDI

Presi come siamo a preoccuparci delle 'secessioni' europee stiamo perdendo di vista il rischio che corriamo in casa: la disunione d’Italia. Sarà perché su ogni cosa, almeno da quando la vita social ha preso il posto di quella reale, tendiamo a dividerci tra medici e no, economisti e ragionieri, scienziati e visionari, populisti e europeisti. Sarà perché siamo stati capaci di scrivere il Manifesto Futurista, che cambiò il modo di concepire uomo e arte, sdoganando però il culto della velocità e della guerra, tanto che un pittore come Boccioni morì facendo il soldato volontario nella Prima Guerra mondiale.

Sarà perché in pieno secondo conflitto abbiamo invece avuto il coraggio di immaginare con il Manifesto di Ventotene un’Europa federata e di pace, come suggeriva Kant. O forse sarà perché noi italiani salviamo un migrante su due in tutto il Mediterraneo da oltre tre anni e allo stesso tempo, adesso, chiudiamo ai salvati i porti. S aranno tutte queste cose, che delineano un’identità contraddittoria, compresi i giorni perduti a cercare coi numeri una soluzione alla crisi delle persone, ma questo nostro essere dottor Jekyll e mister Hyde oggi ci sta pericolosamente portando alla deriva. Economicamente, socialmente e culturalmente, perché politicamente lo siamo sempre un po’ stati nonostante la stabile instabilità della cosiddetta Prima Repubblica e l’alternanza di governo della cosiddetta Seconda.

Eppure mai come ora sarebbe il caso di avere un’Italia unita. Nel mondo governa il caos, ma comanda il capitale. Tanto che aumentano i milionari e i poveri vedono ridursi il loro sempre più esiguo patrimonio. Le aziende hanno sempre la tentazione di richiedere l’aiuto di Stato per ripararsi dalla concorrenza e dalla globalizzazione, i governi zoppicano e nessuno a Bruxelles riesce ad avere una ricetta buona per tutti, così che Parigi e Berlino si preparano col Trattato di Aquisgrana, a comandare da soli. L’Italia in questo contesto prova a rispondere alle istanze delle persone rimaste indietro con una formula che dovrebbe portare, col reddito di cittadinanza e la 'quota 100' per i pensionandi, a maggiori assunzioni. Una formula che per essere minimamente efficace deve funzionare perfettamente in tutto il Paese. Anche se il potere d’acquisto per abitante ha da tempo diviso in due la Penisola.

Tutto il Nord, più Toscana ed Emilia Romagna, è in prima classe, insieme alle zone più ricche della Francia, della Germania, della Finlandia, dei Paesi Bassi, dell’Austria e del Sud della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Il Centro e il Mezzogiorno stanno invece scivolando in basso alla clas- sifica, dove troviamo Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Grecia e il Sud della Spagna. La politica economica del governo Conte sarà dunque decisiva in un anno che si preannuncia difficile e dove, come ha ammesso con lucidità il premier a Davos, «si è diffuso un sentimento di disperazione; persino la classe media, che si sentiva emancipata dalle necessità economiche di base, ora teme la povertà. Tutti, con poche eccezioni, tendono a ritenere che il domani sarà peggiore dell’oggi». Siamo soli. poco servirà la leva monetaria, la so-Alita strada finanziaria che non imboc- cheranno mai gli individui normali. La politica accomodante della Banca centrale europea, che terrà ancora per molto a zero i tassi di interesse, potrà salvaguardare dalle impennate dello spread, ma risulterà del tutto inutile a chi non pensa di investire e non può aumentare i consumi. Siamo soli e così ci sentiamo, di fronte alla dittatura di un capitale che non fa salire la marea per tutti e all’abisso dell’esistenza senza fini. Per questo serve un cambio di paradigma, occorre evitare di dividersi ulteriormente tra Guelfi e Ghibellini, serve recuperare quello spirito di corpo che fece grande l’Italia scamiciata del boom, riaprendo l’enciclopedia della nostra storia. Serve puntare sulla scuola, sul ruolo che ha nell’unire le diversità (uno studente su dieci e un lavoratore su dieci ormai in Italia è straniero, più che un costo una ricchezza), laddove tutte le statistiche dimostrano invece che siamo il Paese con meno laureati in Europa e meno occupati tra chi ha raggiunto il secondo grado di istruzione.

E nel fare questo occorre riscoprire la forza trainante della nostra cultura, della nostra lingua, studiata da 80 milioni di persone sul pianeta, che ci renda finalmente consapevoli di calpestare una terra tra le più amate del mondo e non certo perché gli italiani sono tra i più grandi risparmiatori del globo, ma perché vivono nello spazio dove tutto fu inventato, dipinto, scritto, pensato. Per mettere in piedi questa Operazione Rinascimento c’è un solo posto dove tutti sono uguali e questo posto è la scuola, l’ultimo strapuntino di mondo reale, dove l’unità nazionale dovrebbe essere sancita non solo con le bandiere tricolore e azzurra stellata all’ingresso e la foto del Capo dello Stato all’interno, ma riempita di contenuti. Non è retorica afferma- re che una nazione nasce e muore tra i banchi di una classe. E da lì può e deve irradiarsi una efficace alleanza con la famiglia e ogni altro serio ambito educativo.

Quei banchi dove tutti noi abbiamo imparato il bene della condivisione grazie ai classici che magari obtorto collo studiavamo. Non ci sono Keynes o Marx o Friedman, tanto in voga in questo millennio. Dante Alighieri in alcuni canti del Paradiso delinea più volte l’esigenza di trovare un’entità che unisca le differenze dell’uomo e scrive con straordinaria sintesi, «Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna», intendendo che ogni essere vivente vive la tensione all’unità, in questo caso a Dio, pur nello «squadernarsi dialettico dell’immenso volume della creazione». E Giacomo Leopardi, altro sommo poeta che si incontra nei libri di testo, già a suo tempo analizzò invece il rapporto tra i Paesi che avrebbero composto nel secolo successivo l’Unione Europea, delineando come «le nazioni civili d’Europa hanno deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri».

Animosità, pregiudizi, avversione verso gli stranieri, disprezzo per gli altri, quando invece il nostro animo tenderebbe naturalmente all’unità. La 'fotografia' leopardiana e dantesca – ma gli esempi sono innumerevoli – coincide, purtroppo in negativo, con quelli che sono diventati i mali di oggi, che spaccano la nostra comunità e trovano terreno fertile nel divario tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, tra lavoratori, pensionati e disoccupati. Se l’economia divide e sovrasta la politica, penetrando tutte le decisioni umane, ricominciamo a coltivare la cultura. Forse servirà a poco, non migliorerà subito i saldi di bilancio, qualcuno dirà (come già è stato detto) che con essa 'non si mangia', ma cediamoci e proviamoci. Prima di rifondare l’Europa, ricostruiamo la nostra società. Avremo posto la prima pietra per la costruzione di una diga contro ogni indifferenza, a cominciare da quella che stiamo coltivando in patria. Non si può vivere di soli numeri.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: