
Il no alla pena di morte davanti al carcere in cui è stato giustiziato Sigmon - Reuters
Non uccidere. C’è bisogno di ribadirlo continuamente perché non per tutti la vita è sacra e inviolabile. Per motivi diversi, ancora oggi, c’è chi non la rispetta, la calpesta, la schiaccia, la vita. Non uccidere. Il comandamento antico deve risuonare con sempre maggiore forza nelle coscienze e nel mondo. L’altro è come te, ha la tua stessa dignità. L’altro sei tu. Al di là della fede in un dio creatore e signore, la ragione ci dice che a nessuno è dato il diritto di spegnere la vita di un'altra persona. Purtroppo, accade. Non viviamo nella giungla, non siamo all’età della pietra. Nei millenni, l’umanità, con fatica, ha fatto tanta strada. Per poter convivere gli uomini si sono dati delle leggi. Osservarle sarebbe auspicabile per tutti, ma, ancora una volta, non sempre accade. Alla vittima di un qualsiasi sopruso, però, non è dato il diritto di vendicarsi. La società civile si assume il compito, gravoso, di correre in aiuto al singolo e di fare giustizia, dopo regolari indagini e processi. Il reo - ristretto in un luogo sicuro - sarà messo in condizioni di non più nuocere. Verrà punito ma anche aiutato a prendere coscienza del male fatto, per potere, col tempo, migliorare la propria condotta. La società spera di poterlo recuperare, perché crede e insegna che nessun uomo deve identificato col crimine commesso; che tutti possono pentirsi, chiedere perdono, riparare – per quanto possibile – i danni e ricominciare a sperare. Tra i reati di cui gli esseri umani si macchiano, il peggiore in assoluto è quello di stroncare una vita. Non uccidere. Negli Usa, un uomo di nome Brad Keith Sigmon, commette un atroce duplice delitto: con una mazza da baseball ammazza i genitori della sua ex fidanzata. Orrore allo stato puro. L’assassino viene acciuffato e incarcerato. Da quel lontano giorno sono trascorsi 24 anni. Da quasi un quarto di secolo, quindi, a costui, non è stato concessa la gioia di fare un tuffo in mare o una passeggiata in montagna. In questi anni non ha potuto viaggiare, allacciare amicizie con gente straniera, organizzarsi le giornate. La prigionia di Sigmon è durata un tempo lunghissimo, durante il quale di certo avrà avuto modo di pensare, riflettere, pentirsi, studiare, lavorare, impegnarsi, pregare, tentare di espiare. Ognuno di noi, guardandosi dentro, potrebbe raccontare quante cose sono cambiate nella propria vita in questo lasso di tempo. Non ci interessa sapere il motivo per cui Brad Sigmon consumò quel crimine disumano. Sappiamo che l’odio è un veleno potentissimo che produce effetti disastrosi. Ventiquattro anni di vita sospesa in attesa della condanna a morte. Hai ucciso e sarai ucciso. Occhio per occhio, dente per dente. Il sangue del carnefice prezzo da pagare per il sangue delle vittime. Ancora una volta il comandamento inciso sulle lastre delle nostre coscienze viene calpestato. Ancora una volta a quella vocina flebile e possente viene intimato di tacere. Brad Sigmon è stato ucciso. Con la differenza abissale che stavolta a impugnare le armi non è un singolo in preda alla rabbia, all’odio, alla libidine malata, alla follia, ma lo Stato. Con la differenza che l’omicidio, stavolta, è stato programmato, premeditato, deciso, attuato, e non da una sola persona. Con la differenza che la vendetta – perché di vendetta si tratta – colpisce un uomo che non avrebbe più potuto nuocere. Sigmon è stato fucilato. Un plotone di esecuzione, composto da tre volontari, ha puntato al cuore. Fine di un’altra vita. Una morte tragica, inutile, che non porta il benché minimo beneficio a nessuno. Un esempio pessimo dato ai giovani. Una storia desolata che si conclude senza giustizia, senza vittoria e senza vincitori. Uno Stato che non ricusa di ricorrere alla pena di morte per punire il reo come farà a chiedere ai giovani di tenersi lontani dalla violenza? Con quale coraggio potrà insegnare loro a incamminarsi sulla via della speranza, della tolleranza, del perdono, dell’aiuto ai più fragili e bisognosi? Come potrà pretendere da loro il rispetto per il creato e, in particolare, per la vita umana? Uno Stato che uccide un uomo dopo averlo tenuto in agonia per 24 angosciosi anni, qualche domanda se la deve porre. «Invito i miei fratelli cristiani ad aiutarci a mettere fine alla pena di morte», questo il testamento del criminale condannato. Prendiamolo sul serio. Facciamone tesoro.