sabato 29 febbraio 2020
Grazie alla vittoria a Dublino del partito repubblicano, al governo pure a Belfast, si rinsalda l’asse con l’obiettivo di un referendum per la riunificazione nel 2025
Il presidente del Sinn Féin, Mary Lou McDonald, durante un incontro pubblico a Dublino

Il presidente del Sinn Féin, Mary Lou McDonald, durante un incontro pubblico a Dublino - Ansa

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«Se volete davvero una repubblica irlandese votate Sinn Féin». A Dublino, nei giorni dell’ultima campagna elettorale, un manifesto spiccava su tutti gli altri. Riproduceva lo slogan e la grafica di un poster affisso in città nel 1918, quando il partito repubblicano si presentò per la prima volta alle elezioni, in un’Irlanda non ancora divisa. E le vinse con largo margine. Il risultato non venne però accettato dagli inglesi: seguirono anni di guerra che furono il preludio alla nascita dell’Irlanda del Nord. Poco più di un secolo dopo lo Sinn Féin è tornato alla vittoria nella Repubblica d’Irlanda ottenendo un risultato elettorale che va ben oltre le aspettative e i sondaggi, e proietta l’isola verso una possibile riunificazione. Un’Irlanda unita è infatti da sempre in cima all’agenda politica dello Sinn Féin, che dopo essere tornato al governo a Belfast sta adesso cercando di formare un esecutivo anche nella capitale irlandese.

Secondo Aidan Regan, docente di politica economica all’University College di Dublino, la sua vertiginosa ascesa è il risultato di tre fattori economici interconnessi: «un modello di crescita di cui hanno beneficiato in pochi, il grave conflitto sociale intergenerazionale generato dalla crisi abitativa e un decennio di austerità che ha causato un declino nei servizi e nelle infrastrutture ». Per la prima volta nella storia irlandese i due partiti centristi Fianna Fail e Fine Gael, dopo essersi alternati al governo per quasi un secolo, hanno ottenuto insieme meno della metà dei consensi. Considerando che l’Irlanda ha un livello elevato di crescita economica e un tasso di disoccupazione tra i più bassi dell’area UE, la clamorosa bocciatura dell’ex premier Leo Varadkar può a prima vista apparire inspiegabile. «La ripresa dopo la recessione di dieci anni fa è stata favorita dagli investimenti delle multinazionali dell’hightech ma la situazione economica non è rosea come sembra », ribatte Regan. «Secondo gli studi del Fondo Monetario Internazionale circa tre quarti degli investimenti diretti esteri sono fittizi, dovuti a semplici spostamenti di capitali per aggirare gli obblighi fiscali». I n compenso il costo della vita è aumentato in modo esponenziale, creando un divario sociale sempre più insostenibile sulla sanità, l’assistenza all’infanzia e la scuola. Per non parlare del costo delle case ormai alle stelle, con Dublino che è oggi una delle città più care d’Europa. Gli elettori hanno voluto punire le politiche di austerità imposte negli ultimi anni dai governi Fianna Fail-Fine Gael e hanno dato invece fiducia allo Sinn Féin, che si è presentato come il partito dei lavoratori e della gente comune, deciso a tassare le multinazionali, le banche e i grandi capitali investendo nei servizi pubblici e nell’edilizia popolare.

Spesso definito sbrigativamente ’l’ex braccio politico dell’IRA’, lo Sinn Féin è in realtà il più antico partito politico d’Irlanda, fondato nel 1905 quando il paese era ancora una colonia britannica, e pur mantenendo fede all’obiettivo iscritto nel suo Dna – la piena sovranità nazionale irlandese – ha più volte cambiato pelle nel corso del tempo. In passato è stato convintamente anti-europeo: nel 1973 si oppose all’adesione di Dublino alla Cee ma poi, di fronte ai benefici portati dai fondi strutturali e alla spinta di Bruxelles al processo di pace, ha virato verso un euroscetticismo morbido che non gli ha impedito di schierarsi contro i vari trattati di riforma, da Maastricht, a Nizza, fino a Lisbona. Due anni fa un calcolo politico interno portò il partito anche a modificare la propria posizione sull’aborto, diventando a favore della nuova legislazione pur di cavalcare l’onda del consenso popolare.

Fino a poco più di trent’anni fa lo Sinn Féin era solo un piccolo partito astensionista ma ha saputo trasformarsi in una formidabile macchina elettorale. Nel medio-lungo periodo punta adesso al grande progetto politico della riunificazione, da ottenersi attraverso un referendum in tutta l’isola. Il suo programma prevede l’immediata istituzione di un apposito comitato parlamentare e di un’assemblea di cittadini che discuta i piani per l’unità, mentre una consultazione popolare vera e propria dovrebbe svolgersi entro il 2025, ovvero prima che finisca la legislatura. Finora l’ipotesi di una riunificazione era stata poco più che un sogno proibito dei repubblicani. La paura di possibili reazioni violente da parte dei paramilitari protestanti (da sempre ostili a Dublino) e le temute conseguenze di carattere economico l’avevano sempre fatta accantonare a priori. Ma adesso ci sono davvero le condizioni perché si possa realizzare.

A cambiare le carte in tavola ci ha pensato la Brexit: i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno votato a maggioranza per il Remain e, sebbene l’intesa raggiunta da Boris Johnson con l’UE abbia fatto venir meno l’ipotesi di un confine terrestre tra le due parti dell’Irlanda, l’accordo minimalista sul commercio che Londra intende stringere con Bruxelles non funzionerebbe per le due parti dell’Irlanda, le cui economie sono da tempo profondamente legate e interdipendenti. Inoltre l’Irlanda del Nord non vuole perdere i 700 milioni di euro che arrivano ogni anno dall’Europa a sostegno dell’agricoltura, della crescita economica, dei progetti per la riconciliazione e delle iniziative culturali. Già l’Accordo di pace del Venerdì Santo del 1998 stabiliva la possibilità di una futura riunificazione 'quando entrambe le parti dell’isola lo avessero voluto' e negli ultimi due anni – complice la stessa Brexit – i sondaggi hanno mostrato un sostegno crescente nei confronti di una possibile riunificazione, persino all’interno della comunità protestante. L’ultima rilevazione si è svolta qualche settimana prima delle elezioni e ha visto circa due terzi degli intervistati al di sotto dei cinquant’anni dichiararsi a favore di un’Irlanda unita.

Da tempo il dibattito ha anche varcato i confini dell’isola. La potente diaspora irlandese degli Stati Uniti – di cui fanno parte oltre trenta milioni di persone – solidarizza da sempre con i cattolici dell’Irlanda del Nord, ritenendo che la divisione del paese rappresenti un retaggio illegittimo del lungo dominio britannico. E c’è poi il censimento del 2021, che in Irlanda del Nord vedrà molto probabilmente i cattolici superare i protestanti per la prima volta nella storia. La presidente dello Sinn Féin, Mary Lou McDonald, non perde occasione per cercare alleati che possano sostenere il progetto del suo partito. In una recente intervista alla Bbc ha ribadito che l’UE deve prendere posizione sull’Irlanda come fece per la Germania dopo la caduta del Muro di Berlino. Un paragone affascinante ma forse non del tutto plausibile: lo sgretolamento del Regno Unito sarebbe in questo caso la conseguenza, non la causa della riunificazione irlandese, come fu invece il crollo del comunismo per la rinascita della Germania unita.

Nel caso dell’Irlanda il processo di riavvicinamento appare assai più complicato, poiché secoli di divisioni tra le due comunità rendono alto il rischio di un ritorno alla violenza, se non sarà individuato un progetto unitario convincente per gli unionisti protestanti del Nord. Sul piano istituzionale il modello più credibile è quello di uno stato confederale con due giurisdizioni che condividano i poteri magari mantenendo un legame con la Corona britannica, sull’esempio del Canada. Al di là delle non trascurabili questioni identitarie vi sono poi anche problemi pratici, a partire dall’elevato costo della vita nella Repubblica d’Irlanda e dal suo programma di assistenza sanitaria privata che non può certo competere con il generoso National Health Service britannico.

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