domenica 23 settembre 2012
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Nel suo libro «Intervista su Dio» il cardinale Ruini ha definito i vent’anni trascorsi accanto a Giovanni Paolo II «uno straordinario privilegio». E l’altra sera su Tv 2000, a chi gli chiedeva qualcosa di più su quegli anni, il cardinale ha raccontato una abitudine del Papa, che ha lasciato nella sua memoria un segno. Dunque quando a Giovanni Paolo II si presentava una questione grave da affrontare, come prima cosa si ritirava e pregava, solo, davanti al Crocefisso. Pregava a lungo; e soltanto dopo decideva che fare. Ruini confrontava questa abitudine con ciò che facciamo noi, anche credenti, al presentarsi di una faccenda spinosa: ci agitiamo, alziamo affannosamente il telefono a chiedere lumi e consigli, ci facciamo prendere dall’ansia, immaginiamo contromosse e strategie. Wojtyila, no; prima di tutto si metteva di fronte a Gesù Cristo. Domandava a Lui. Ora, forse qualcuno potrebbe non trovare strano che un cristiano davanti a un bivio insidioso si rivolga a Cristo. Eppure noi cristiani del terzo millennio sappiamo come in realtà un rapporto così forte con Cristo lo abbiamo in pochi, e come in genere ricorriamo ad ogni tipo di 'esperto'; e solo poi, come extrema ratio , bussiamo alla porta di Dio. Ci colpisce, l’abitudine Giovanni Paolo II di dialogare nell’assoluto silenzio di una cappella, perché in realtà mette in luce ciò che manca anche a molti dei più sinceri di noi: e cioè la certezza limpida che quel Gesù Cristo morto in croce duemila anni fa sia, veramente, risorto, e vivo in mezzo a noi; sia, veramente, presenza concreta davanti a cui deporre i nostri affanni. Una certezza questa che, nella storia, è appartenuta ai santi; e anche a uomini e donne semplici, di pochi studi, magari, ma ferrei nella certezza di Cristo vivo. Pensando solo a una figura molto popolare, anche il don Camillo di Guareschi era di quest’ultima razza, un povero prete di campagna che al Crocefisso raccontava tutto (e il Crocefisso, tranquillamente, rispondeva). Ce ne sono certo anche oggi di cristiani che praticano quel 'Tu', e gli si rivolgono in assoluta confidenza; però sappiamo come la secolarizzazione sia passata anche dentro di noi, lasciando talvolta, a Cristo, solo il ruolo di un nobile maestro di etica, o addirittura di una splendida leggenda, o di un pio ricordo – niente di abbastanza solido per fronteggiare la modernità. Perfino un uomo come Ruini, principe della Chiesa, credente di acciaio, con onestà ha lasciato trapelare un filo di commossa ammirazione al ricordo di quel Papa che, prima di ogni altra cosa, pregava. Quel pregare che nella cultura dominante è esercizio inutile, o nel migliore dei casi il rifugio mistico di chi non voglia affrontare il mondo di persona, era invece il primo approccio alla realtà di un Papa che ha avuto uno straordinario impatto sulla storia, e anzi l’ha fortemente influenzata. E a chi ascolta la testimonianza di Ruini rimane addosso un pensiero: credere come Giovanni Paolo II, con quella certezza limpida e inscalfibile come un diamante, con quell’abbandono, quanto cambierebbe la nostra vita. Naturalmente non è da tutti una tale radicalità, e quel sovrano esser certi, in una stanza o in una chiesa vuota, che Dio è qui, e ascolta. Qualcuno ci arriva solo quando, le spalle al muro, la disperazione ce lo spinge. Qualcuno quando è molto vecchio, e con l’andarsene delle forze pronunciare quel 'Tu' rimane l’unica possibile scelta. (Che tutta la vita serva per condurci a quel 'Tu' inerme, di bambino?). Bella testimonianza, quella di Ruini, uomo lungamente ai vertici della Chiesa. Nelle stanze di un Vaticano oggi dipinto solo come nido di cupi intrighi e terrene ambizioni, il Papa ascoltava, poi lasciava la scrivania e andava a pregare. Tornava e sceglieva, e faceva. Con quanta forza, e quale impronta lasciando negli uomini e nel secolo. Si direbbe, addirittura, che pregare, l’'immateriale' silenzioso pregare, nell’era del rumore e del culto dell’audience, sia di tutte le nostre parole la più realista – la più misteriosamente capace di operare. 
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