E l'Occidente scoprì che tra religione e sfera pubblica il discorso è aperto
Si tratta di uscire dalla contraddizione in cui siamo intrappolati: da un lato l’illusione di una secolarizzazione autosufficiente, dall’altro la tentazione del fondamentalismo

L’omicidio di Charlie Kirk è uno di quegli eventi catalizzatori che fanno emergere nodi profondi. In questo caso il ruolo del cristianesimo nella crisi della cultura occidentale. Il successo di Turning Point si deve a un format innovativo: incontrare i ragazzi dei college, discutere con loro di temi cruciali e altamente divisivi (l’aborto, la famiglia, la necessità di un ritorno alla fede cristiana come fondamento etico e sociale dell’intera vita sociale) allo scopo di smontare i presupposti della cultura woke. Grazie alla sua carica empatica e alla sua ottima capacità dialettica, Kirk riusciva a sfidare l’orizzonte di senso assunto come indiscutibile nella gran parte degli ambienti accademici e mediatici: l’idea che la società individualizzata e tecnocratica sia ormai strutturalmente secolarizzata. Avendo interiorizzato e desacralizzato alcuni dei valori caratteristici del cristianesimo (la libertà, la dignità individuale, l’uguaglianza), essa non avrebbe più bisogno del quadro religioso che li ha originati.
La vicenda di Kirk segnala un problema reale benché sistematicamente rimosso: l’individualismo radicale, la riduzione della libertà a pura scelta soggettiva, la dissoluzione di un insieme di valori comuni creano una società nichilista. Quando qualsiasi posizione è legittima in quanto espressione dell’autonomia individuale, il legame sociale si indebolisce e il vuoto finisce per essere colmato dall’odio, dal risentimento, dalla violenza simbolica e talvolta fisica. Non bisogna essere fondamentalisti per riconoscere che la modernità occidentale, sempre più priva di punti di riferimento, rischia di perdersi nel nulla. L’iniziativa di Kirk non avrebbe potuto affermarsi se non avesse trovato il terreno fertile di una insoddisfazione diffusa.
Da anni tutte le grandi religioni (islam, ebraismo, induismo) registrano forti pulsioni fondamentaliste. Scienza e tecnologia, combinandosi con l’individualismo radicale, non solo non risolvono ma addirittura aggravano il problema, ponendo questioni antropologiche di fondo (oltre all’aborto, le questioni di genere, il fine vita e la manipolazione genetica) con una leggerezza disarmante. Il fondamentalismo è la risposta sbagliata a una questione vera, che viene affrontata senza lasciare spazio al dubbio, tacciato di oscurantismo tout court. Il cristianesimo non è immune da questa dinamica. E la proposta politica di un “nazionalismo cristiano”, sostenuta dal movimento Maga e da esponenti come Steve Bannon, mira a ricostruire la coesione sociale sulla base di una rinnovata identità religiosa. Una tale soluzione comporta due rischi. Il primo è quello di alimentare la logica dello “scontro di civiltà”. Occidente cristiano contro mondo arabo, confucianesimo cinese e induismo indiano. In un momento in cui ciò di cui abbiamo bisogno, come unica alternativa alla guerra, è il dialogo. Il secondo è quello di esporre la religione a tutte quelle ambivalenze che affiorano quando diventa puro strumento di lotta politica.
La vicenda Kirk permette allora di porre in evidenza un punto fondamentale: non è affatto scontato riuscire a rigenerare le basi morali di una società privandola di ogni riferimento religioso. Non basta invocare diritti individuali, soluzioni tecnologiche o procedure democratiche: serve una sorgente vitale che alimenti il senso del limite, della responsabilità, della solidarietà. Che le religioni rappresentino “giacimenti etico-morali” da rispettare e incoraggiare lo riconosce peraltro anche un pensatore laico come Jürgen Habermas. Quando le domande sul senso, sul bene, sul giusto vengono espulse dallo spazio pubblico, la società perde l’anima, finendo in balia di forze distruttive. Si può non essere d’accordo con l’ipotesi di Kirk – oggi condivisa da molti partiti conservatori europei e americani – di fare del cristianesimo la piattaforma di una nuova proposta politica. Ma le perplessità che questa posizione solleva non significa che si possa considerare chiuso il discorso. L’alternativa non può essere il vuoto: occorre cercare vie nuove che tengano insieme pluralismo democratico e vitalità etica, cultura laica e senso religioso.
Una cultura che assolutizza la libertà individuale finisce per generare conflitti insanabili, fratture etiche, dilemmi insolubili. La libertà, se sganciata da ogni riferimento al bene comune, rischia di trasformarsi nel suo contrario: nell’arbitrio che mina le basi stesse della convivenza. C’è una strada diversa, che non coincida né con le sirene del fondamentalismo religioso né con il secolarismo radicale? Una via è quella del riconoscimento del valore pubblico delle religioni, intese non come esperienze esclusivamente private ma come dimensioni collettive che, senza avere la pretesa di sostituirsi allo Stato o di imporre la propria visione del mondo, apportano un contributo prezioso alla rigenerazione di un comune tessuto etico. Invece del modello francese – basato sulla rimozione del religioso dallo spazio pubblico – serve un’idea di laicità che riconosce il ruolo pubblico della religione.
Si tratta di uscire dalla contraddizione in cui siamo intrappolati: da un lato l’illusione di una secolarizzazione autosufficiente, dall’altro la tentazione del fondamentalismo. La sfida è trovare un equilibrio che consenta di valorizzare il patrimonio spirituale delle religioni senza trasformarlo in strumento di dominio. La vicenda di Kirk, con la sua drammaticità e le sue ambivalenze, ci costringe a riconoscere che la questione del rapporto tra religione e sfera pubblica è tutt’altro che chiusa. Anche in Occidente. E che non possiamo accontentarci di soluzioni semplicistiche. Né da una parte né dall’altra. Quella che va esplorata è una laicità dialogica, capace di riconoscere la religione come fonte di senso collettivo, risorsa per la vita democratica e per il dialogo interculturale e interreligioso. In un mondo in preda a molteplici crisi, rigenerare le basi morali della convivenza è un’urgenza ineludibile. Senza affrontare seriamente questa sfida, le nostre società ‒ in primis quelle occidentali ‒ rischiano di smarrire sé stesse.
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