Una «rivoluzione» da maneggiare con cura
venerdì 3 novembre 2023

Una «rivoluzione», per di più «enorme». Anzi, «la madre di tutte le riforme». Con i toni roboanti ai quali ci ha abituato, Giorgia Meloni ha annunciato ieri l’approvazione in Consiglio dei ministri dello schema di disegno di legge costituzionale che introdurrebbe nella nostra legge fondamentale l’elezione diretta del capo del governo. Più un premio di maggioranza del 55% definito già in Costituzione. Il tutto in 5 articoli. Semplice e rivoluzionario, appunto. Ma, si sa, le rivoluzioni portano sempre con sé una buona dose di temerarietà e di incognite. In questo caso una dose generosa, sotto i profili del metodo e del merito.

La Costituzione, non bisogna stancarsi di ricordarlo, è il frutto dell’incontro fra tutte le culture politiche che parteciparono alla lotta di liberazione dal fascismo. Stabilisce essa stessa che può essere modificata (tranne nella forma repubblicana) e anche come. Tuttavia ‑ trattandosi delle regole che riguardano la vita di tutti i cittadini, anche quelli che non votano, volontariamente o meno ‑ la strada da preferire è sempre quella della massima condivisione possibile. Fare delle riforme istituzionali un tema identitario e/o di parte (vale anche, con evidenza solare, per l’autonomia regionale differenziata) sembra ‑ parafrasando Joseph Fouché ‑ peggio di un errore: sembra un rischio per la stabilità delle istituzioni stesse. I precedenti, del resto, non sono incoraggianti: hanno prodotto risultati generalmente giudicati pessimi (la riforma del Titolo V voluta dal centrosinistra), di fatto irrilevanti (la riduzione del numero dei parlamentari sbandierata dal M5s), oppure sono andati a schiantarsi contro gli scogli del referendum confermativo, come la devolution leghista o la più ampia riforma costituzionale Renzi-Boschi.

Ieri la ministra per le Riforme Maria Elisabetta Casellati ha affermato che con questa proposta, avendo accantonato l’originario progetto di presidenzialismo vero e proprio, l’attuale maggioranza ha «abbassato le bandierine», auspicando per questo la «convergenza delle opposizioni». Ma senza timore di esagerare ‑ e passiamo così alle osservazioni di merito ‑ si può dire che questa riforma è da “maneggiare con cura” perfino più di un presidenzialismo tradizionale, all’americana o alla francese. Innanzi tutto perché l’elezione diretta del premier non esiste neanche nei premierati storici, come quello britannico. In secondo luogo perché il premio di maggioranza del 55% (ma Casellati ha annunciato che potrebbe anche essere maggiore, allora vale la pena ricordare che con il 66% una qualsiasi maggioranza può cambiare la Costituzione a suo piacimento senza nemmeno dover passare per il referendum) abbinato alla cosiddetta norma “anti-ribaltone” può limitare drasticamente il ruolo del Parlamento, riducendolo quasi ‑ la definizione è di un parlamentare della Lega ‑ a un «Consiglio comunale d’Italia».

Analoga compressione subirebbero le prerogative del presidente della Repubblica, al quale sarebbe sottratto non solo il potere di nominare il presidente del Consiglio ma, nella sostanza, anche quello di sciogliere le Camere. Quest’ultimo potere, ha fatto notare il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, verrebbe trasferito di fatto nelle mani dell’eventuale secondo premier, che ‑ se per qualsiasi motivo si dimettesse ‑ non potrebbe essere sostituito. Nelle mani cioè di un premier non eletto direttamente, in contraddizione palese con lo spirito della riforma.

Al capo dello Stato, che non potrebbe nemmeno più scegliere senatori a vita «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti», resterebbe il compito di nominare i ministri, ma ovviamente ‑ come già accade ‑ «su proposta del presidente del Consiglio». Insomma, appare concreta la possibilità di un’ipertrofia del potere esecutivo a discapito del legislativo e di una riduzione del ruolo di garante che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica.

Va registrato, certo, che è stata tolta dal testo la previsione dell’elezione diretta del premier «a turno unico», scelta che lascia aperta la possibilità di un ballottaggio. E che è scomparsa la blindatura a priori del rapporto tra il capo del governo e la maggioranza uscita dalle elezioni. Ma non è abbastanza per rassicurare chi è convinto che la governabilità sia un bene non superiore al mantenimento dei delicati equilibri istituzionali di una democrazia.

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