Il paziente in tribunale. Il piccolo Alfie e una grande sfida
sabato 14 aprile 2018

La determinazione ostinata con la quale la giustizia britannica si è "appropriata" della sorte di un bimbo gravemente ammalato non solo suggerisce interrogativi sul rapporto tra Stato e cittadini in un’era che esalta i diritti, venera le tecnologie e si consegna agli algoritmi ma, prima di tutto, lascia senza parole. Parole, intendiamo, capaci di reggere l’urto di fatti come quelli che stanno accadendo tra un ospedale pediatrico di Liverpool e le corti di giustizia di Londra e Strasburgo, e che poco a poco finiremo per veder accadere anche altrove. Quali parole possono definire una nuova sentenza che definisce «migliore interesse» di una persona la sua morte procurata per mano di chi dovrebbe prendersene cura? E quale vocabolario può definire una medicina che, mentre promette terapie prodigiose, intanto consegna un paziente al tribunale se si profila la certificazione della sua impotenza davanti a ciò che ancora non conosce, e non può vincere?

L’ultimo atto dei giudici nei confronti dei genitori di Alfie Evans ha il sapore del sopruso di una macchina giudiziaria cieca e sorda: non osate più toccarlo senza il nostro consenso - hanno ingiunto ieri i magistrati a papà Thomas e mamma Kate, come se il piccolo fosse un oggetto sequestrabile con atto protocollato e non un figlio il cui destino è nel cuore e nelle mani di chi l’ha generato e mostra di amarlo perdutamente. Forse che il diritto esigibile oggi è solo quello di morire come e quando si desidera, con la macchina della giustizia e della sanità pronte a eseguire una volontà suicidaria? E chi si oppone – madri e padri, nientemeno – dev’essere messo a tacere, e addirittura privato della potestà di portare il proprio figlio inesorabilmente difettoso dove c’è chi può accompagnarlo al compimento della malattia tra le braccia dei genitori? Suona insopportabile questa intromissione nella vita e nella morte, e nella stessa relazione di una madre e un padre col proprio figlio sofferente, da parte di uno Stato che si attribuisce la capacità di sapere quale sia il confine oltre il quale una vita non è più meritevole di essere curata, e si dà il potere di decidere quando, anzi, va spenta, certo senza mai accanirsi (e che accanimento terapeutico ci sarebbe su un bambino per il quale manca persino una diagnosi, figuriamoci una terapia?). I poliziotti che piantonano la camera di Alfie per evitare che i genitori possano trasferirlo in un altro ospedale, coltivando la speranza di non vederlo morire su disposizione di una sentenza, sono l’icona di un’incomprensione ormai radicale di cosa tenga ancora in piedi il mondo mentre tutto ci dice solo di sacrificare agli dèi del consumo e dell’efficienza fingendo di non vedere i lati della strada dove si ferma l’umanità che non tiene il passo, malati e anziani, migranti e disabili.

Quegli uomini in armi davanti alla camera di Alfie allora quale evasione devono scongiurare? Certo non un bimbo inerme e intubato, che problema sarebbe per Sua Maestà vederlo curato altrove? Dalla porta dell’Alder Hey Childeren’s Hospital di Liverpool evidentemente si teme possa uscire, tra gli applausi e le lacrime di gratitudine del popolo che in strada o sul web si è spontaneamente stretto a Thomas e Kate, una speranza liberata, un amore tenace, la fedeltà senza riserve a un dono dato e ricevuto. Un’ostinazione uguale e contraria a quella della morte a richiesta come nuovo diritto. E se basta uno sguardo per vedere nella smarrita fierezza di due genitori giovanissimi – lui 21 anni, lei 20, ragazzi di paese senza ragionamenti raffinati da spendere a favore di telecamera, impresentabili nei salotti che contano – tutta la nostra irriducibile umanità, ci chiediamo dove sono finiti adesso i cantori dell’autodeterminazione, per credere ancora nella sincerità delle loro battaglie, e perché si manomettono le ragioni universali del cuore e del sangue con argomenti scientifici e giuridici privati del legame con l’uomo vero e vivo, e perciò stesso snaturati.

Se dell’uomo si decide che può essere misurata la dignità attraverso i dati della sua cartella clinica allora prepariamoci a entrare in un mondo nel quale nessuno è più sicuro di ciò che gli spetta in quanto persona umana. Nessun caso è uguale, ma dobbiamo ad Alfie – e prima di lui a Charlie e Isaiah, gli altri bimbi inglesi cui in pochi mesi è già stato stabilito il «miglior interesse» a morire – la possibilità di riconoscere quel che ci salva dalla distopia realizzata di un mondo dove i diritti sono di annientamento. Ce lo indica, dal silenzio del suo lettino, perché lo teniamo gelosamente stretto, come il figlio che ci è affidato.

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