giovedì 4 marzo 2010
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Le decisioni degli organismi giurisdizionali competenti hanno sancito, per ora, che nelle due regioni più popolose – Lombardia e Lazio – i "listini" capitanati dai candidati alla presidenza non possono essere ammessi al voto. Nel Lazio, allo stato delle cose, è fuori anche la lista del Popolo della libertà nella importantissima circoscrizione che corrisponde alla provincia di Roma. Può darsi che l’esame degli uffici sia stato particolarmente minuzioso e addirittura pignolo, ma dovrebbe essere chiaro che anche le formalità debbono essere rispettate, specialmente da chi non può attendersi nessuna tolleranza compiacente da un ordine giudiziario, col quale – a torto o a ragione – è notoriamente in conflitto. Quel che non ha funzionato in modo clamoroso è l’organizzazione elettorale del Pdl, che non ha messo insieme in modo preciso le firme necessarie proprio in due città, Milano e Roma, nelle quali il primo partito italiano può contare anche sul niente affatto trascurabile seguito personale di cui godono il governatore Roberto Formigoni e il sindaco Gianni Alemanno. Si vedrà come andrà a finire con gli ulteriori ricorsi, ma tutti dovrebbero sperare che il confronto elettorale avvenga alla fine tra schieramenti in grado di scendere in campo e di confrontarsi con tutti i candidati che hanno scelto, ma se ciò non accadesse è chiaro che la responsabilità sarebbe di chi ha commesso errori e affastellato pasticci e improvvisazioni, non di chi ha deciso di sanzionarli con rigore. L’evidente disastro organizzativo del partito di maggioranza relativa inevitabilmente acuisce i problemi politici di cui è insieme effetto e causa. Un partito che così com’è non piace ai suoi stessi fondatori, come ha detto esplicitamente Gianfranco Fini e fa capire fin troppo chiaramente Silvio Berlusconi, che infatti ha annunciato al creazione di una rete di "promotori della libertà" che ha l’aspetto di un’organizzazione correntizia di maggioranza da opporre a una che punta a nuovi equilibri interni. È sempre un guaio quando in una struttura complessa non si riesce a unirsi nella definizione delle forme per la decisione e la selezione del personale politico, poi dividendosi com’è fisiologico su scelte e orientamenti politici che riguardano temi specifici. L’incrocio opaco tra tensioni politiche e aggregazioni personali ha creato uno stato di marasma nel quale anche gli aderenti e i simpatizzanti non riescono a raccapezzarsi. Il fatto che i problemi più clamorosi siano esplosi proprio in situazioni nelle quali esiste – o almeno esisteva – una forte rete organizzativa, com’è dimostrato dall’ampiezza del consenso elettorale ricevuto anche in recentissime consultazioni, dimostra che non c’è un deficit di partecipazione o come si diceva una volta di militanza, ma un’incapacità di dare a queste energie una espressione organizzata coerente e sufficientemente unitaria. Comunque vada a finire si è scoperchiata una pentola e si è visto che la più forte formazione politica italiana è attraversata da crepe e fratture che ne rendono l’azione sul territorio confusa e l’orientamento generale incerto. È più di un campanello d’allarme, ma non è ancora una campana a morto: tutti i problemi si possono affrontare se li si guarda con l’attenzione e la preoccupazione che meritano, senza cercare la facile via di fuga della denuncia del solito «complotto» altrui.
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