martedì 9 aprile 2013
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L’impatto prodotto da Margaret Thatcher sulla politica britannica è descrivibile evidenziando un paradosso fra rigido conservatorismo istituzionale e spinta radicalmente innovativa sul sistema, oltre che sui programmi pubblici, che hanno preso il nome di thatcherismo.Il primo versante di questo paradosso è il sistema costituzionale inglese, che la signora Thatcher trovò al momento della sua ascesa al potere, dopo le elezioni legislative del 4 maggio 1979: si trattava di regole per lo più non scritte e consolidate, prodotto di un’evoluzione plurisecolare. Quel sistema, basato su un Parlamento onnipotente (senza una Costituzione scritta o una Corte costituzionale che ne limitassero il potere) e su una legge elettorale maggioritaria che consente la conquista del Parlamento e del governo con una maggioranza relativa di voti (la Thatcher vinse le sue tre elezioni del 1979, del 1983 e del 1987 con un consenso superiore al 40 ma inferiore al 45% dei voti), è la chiave senza la quale le riforme thatcheriane sarebbero state impossibili. In esso il principale contropotere al primo ministro era il suo stesso partito, che la seguì fedelmente, senza incrinature, fino al 1986 (anno delle spettacolari dimissioni di Michael Heseltine per lo scandalo Westland) e che finì con l’affossarla, sempre su iniziativa di Heseltine, con una rivolta interna nel novembre 1990. Ma a parte questo limite e il potere di raffreddamento della Camera dei Lords (che le votò contro un centinaio di volte), il premier non aveva davanti a sé alcun sostanziale contrappeso. Senza quel sistema, nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile. Ecco perché, in campo costituzionale, la signora Thatcher fu veramente un leader conservatore: si oppose alla devolution in Scozia, di cui si parlava già negli anni Settanta, ed era ovviamente ostile sia a una riforma elettorale, sia a una Carta dei diritti («Non mi piacciono le Carte dei diritti», si narra abbia detto al premier canadese Trudeau, che voleva adottarne una all’inizio degli anni Ottanta, sanzionando l’indipendenza giuridica di Ottawa da Londra). E a quel conservatorismo costituzionale la Lady di ferro rimase fedele: la Costituzione britannica passò immutata dopo il suo lungo governo (e dopo i 7 anni del suo successore, John Major) ai laburisti, che invece hanno avviato dal 1997 una serie di riforme, poi proseguite dall’attuale coalizione liberal-conservatrice, che hanno sensibilmente avvicinato il sistema costituzionale inglese a quelli continentali. Ma a questo conservatorismo sulle istituzioni corrispose, appunto, una spinta radicale sul sistema politico. Thatcher rivoltò da cima a fondo anzitutto il suo Partito Conservatore, che nel dopoguerra aveva accettato il Welfare State voluto dai laburisti e si era inserito in una logica relativamente consensuale, subendo anche i veti del potere sindacale, giunto all’apice negli anni Sessanta. Dentro il Partito conservatore si affermò un’ala liberista radicale ed euroscettica, che marginalizzò il vecchio torysmo consensuale. Una divisione profonda, la quale, se consentì al partito quattro successi elettorali consecutivi e 18 anni di governo sotto la guida carismatica di Thatcher e sotto il grigio pragmatismo di John Major, pose le premesse per il lungo esilio del partito dal potere dopo il 1997, quando, per la prima volta in un secolo di storia non uno ma ben tre leader conservatori – Hague, Duncan Smith e Howard – non divennero mai primi ministri (a differenza di tutti i loro predecessori nei due secoli precedenti). Ma l’impatto del thatcherismo non fu meno radicale sull’opposizione. La vittoria conservatrice del 1979 fece scivolare il Labour Party su posizioni di estrema sinistra (ai tempi di Michael Foot) e aprì la via a una scissione a destra da cui nacque il Partito socialdemocratico e poi l’Alleanza fra liberali e socialdemocratici, che rese tripolare – nei voti, anche se non nei seggi – il sistema politico inglese, e che è alla radice ultima della necessità, dopo le ultime elezioni, del primo governo di coalizione britannico in tempi di pace da circa un secolo. Più noto è l’impatto di medio periodo prodotto dal thatcherismo sul contraltare laburista e sul movimento sindacale. Sconfitto per quattro volte, il Labour Party scelse nel 1992 di affidarsi al riformismo di John Smith e, due anni dopo, al più carismatico Tony Blair, che riportò il partito al potere in un quadro nel quale le principali riforme thatcheriane vennero mitigate, ma non abbandonate. Quanto al sindacato, esso si era trasformato, negli anni Settanta, in una sorta di Stato nello Stato, con un potere di veto sulle politiche pubbliche. La battaglia condotta contro le Trade Unions dalla Lady di ferro produsse un sindacalismo più moderno: il divieto di picchettaggi, l’obbligo di deliberare uno sciopero con referendum a scrutinio segreto, l’abolizione della regola del closed shop, che consentiva ai sindacati di ottenere che in alcune imprese fossero assunti solo i loro iscritti. Ne è uscito un sistema di relazioni sindacali più rispettoso della libertà e della democrazia. E anche questo è un esito poco enfatizzato ma cruciale dei lunghi anni di anche dura "rivoluzione" thatcheriana.
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