martedì 3 febbraio 2015
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Tre righe appena, ma di quelle fulminanti. «Desidero annunciare che sabato 6 giugno, a Dio piacendo, mi recherò a Sarajevo, capitale della Bosnia ed Erzegovina. Vi chiedo fin d’ora di pregare affinché la mia visita a quelle care popolazioni sia di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti fermenti di bene e contribuisca al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia». A sorpresa, come sua abitudine, papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa ha annunciato questa nuova tappa della sua già fitta agenda del 2015. Un solo giorno, come già accaduto per l’Albania, in quella «Gerusalemme d’Europa», come la definì Giovanni Paolo II, che era, e ancora di più è oggi, un autentico crocevia di uomini, popoli e religioni. Pochi dubbi sul senso e il significato che Papa Bergoglio attribuisce a questa visita. E, se mai ce ne fossero stati, li ha fugati egli stesso, domenica, aggiungendo a braccio quel «del dialogo interreligioso e dell’amicizia» al testo scritto. E, in questo senso, di significato «molto, molto elevato, direi altissimo» ha parlato ieri alla Radio Vaticana il nunzio apostolico Luigi Pezzuto, che sottolineando la «buona, anzi ottima» accoglienza dell’annuncio, ha affermato che la visita «siamo sicuri farà molto bene e non solo ai cattolici...  Sarajevo è un po’ un crocevia non solo culturale, ma anche sul piano religioso: differenti confessioni cristiane, differenti religioni. Il massimo leader musulmano locale mi diceva: 'Dica al Papa che venga, farà il bene di tutti gli abitanti della Bosnia ed Erzegovina, anche se la visita praticamente sarà solo a Sarajevo per ragioni di tempo'».   Un evento, ha aggiunto, importante per un processo di pace che «è in atto, ma non è mai completo. E poi c’è anche la questione del dialogo religioso, interreligioso e poi il dialogo ecumenico, con l’auspicio che «porti tanti frutti sia per la Chiesa locale, la Chiesa cattolica, ma anche a livello di tutte le fasce di questa società – quindi a livello culturale, a livello religioso – in modo che veramente si possa andare verso un clima, una situazione di pace e di convivenza. È già cominciato questo processo, però deve maturare e deve essere portato a compimento». E, ad aggiungere diffcoltà, in questo periodo si è aggiunta la crisi economica, che ha fatto crescere poveri e tensioni. Perché Sarajevo sia tanto importante, in un vecchio continente attraversato da tensioni che proprio nella crisi della convivenza, come i fatti di Parigi hanno di nuovo messo a nudo, ha uno dei suoi snodi più delicati, è qualcosa che appartiene alle fibre più intime di questa città nel cuore dei Balcani. E, purtroppo, è anche qualcosa che nonostante la tragedia che ha devastato i Paesi dell’ex-Jugoslavia negli anni ’90 stenta a essere compreso fino in fondo. «Credo che l’Europa, e tutto il mondo, ancora non si sia resa conto di quale sia la posta in gioco a Sarajevo. Speriamo che non se ne accorga quando sarà troppo tardi». L’assedio della capitale della Bosnia Erzegovina era iniziato già da un anno quando, non certo per la prima volta, nel 1993 il cardinale Vinko Puljic rilanciava davanti a chi scrive il suo allarme, aggiungendo che «se la città crolla, tutta l’Europa crolla».   Esagerazione? Non proprio. Quello che la guerra feroce combattuta tra le montagne della Bosnia Erzegovina ha insultato e ferito, fino a incrinarlo, è stato un modello di convivenza tra diverse culture e religioni che aveva non solo resistito, ma fatto sviluppare attraverso i secoli quella nazione. Un luogo dove cristiani di diverse denominazioni, musulmani ed ebrei vivevano senza problemi fianco a fianco, in un clima che andava ben oltre il semplice rispetto e la collaborazione. E resteranno scolpite nella storia le parole spese instancabilmente per avvertire del rischio immenso che si correva da Papa Wojtyla, che proprio nel contesto dell’assedio di Sarajevo sarebbe arrivato nel luglio del 1994 a teorizzare il concetto della liceità di interventi di 'ingerenza umanitaria' per fermare gli aggressori. Quel che la guerra ha, appunto, minato nelle fondamenta, la fragile pace non è riuscita a ricostruire. E, esattamente come si temeva, a farne le spese sono state le comunità religiose più piccole. Rispetto a vent’anni fa, solo per parlare della Chiesa cattolica, i cristiani nel Paese di quasi 4 milioni di abitanti sono dimezzati, passando dai circa ottocentomila che erano a quattrocentomila, e in alcune diocesi sono scesi fino al 30 per cento. Colpa dell’esodo iniziato con il conflitto, ma che la politica della fragile nazione che ancora tenta di ricostruirsi non solo non ha fermato ma, in qualche modo, incoraggia, se non altro non mettendo sullo stesso piano tutti i suoi cittadini.   Proprio la politica è la grande accusata di questa situazione. E anche senza voler cadere nelle dietrologie che vedrebbero nel dazio che i governi succedutisi sarebbero chiamati a pagare per il sostegno che ricevono da alcuni Paesi arabi (dazio che per l’appunto includerebbe la trasformazione della Bosnia in una nazione islamica), di sicuro sono molti i fattori che già da soli bastano oggettivamente a giustificare quanto sta accadendo: una la corruzione pubblica dilagante all’interno di un’architettura dello stato troppo artificiale per poter funzionare, l’instabilità di governi incapaci di durare più di due anni, e la disillusione dei cittadini.  Un confuso e a tratti indecifrabile clima da campagna elettorale permanente che a tutto giova tranne che riprendere con coraggio la difficile strada di una ricostruzione vera, che passi innanzitutto dal ridare fibra a quello che è stato l’autentico tessuto connettivo della nazione. Si vive sull’oggi e per l’oggi, sul piccolissimo cabotaggio, e nessuno si è ancora sognato di imbarcarsi nell’applicazione del cosiddetto 'annesso7' degli accordi di pace di Dayton, nodo cruciale e riconosciuto come imprescindibile del processo di pace, che stabiliva il diritto di tutti i fuoriusciti a fare ritorno alle proprie case. Troppo difficile, e troppo impegnativo. Soprattutto politicamente troppo rischioso. Ed è proprio in questo che l’Europa, come temeva Puljic, ancora sta dimostrando di non avere consapevolezza di quale sia la vera posta in gioco in questa Bosnia Erzegovina che oggi chiede di entrare nell’Unione. Un’Unione incapace di disegnare una road map a misura dell’interlocutore e, fino a oggi, incapace a mettere i paletti opportuni al posto giusto perché quel cammino non abbia in prospettiva solamente un traguardo economico, ma sia qualcosa di politicamente rilevante per il futuro dell’Europa intera. Ecco, sono queste le questioni sul piatto, ed è questa la consapevolezza a cui innanzitutto l’Europa deve arrivare. La speranza, ora, è che il prossimo viaggio di papa Francesca riesca a riportare questa grande sfida sulle pagine di un’agenda internazionale che, fino a ieri, della Bosnia Erzegovina s’era completamente dimenticata. 
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