martedì 5 maggio 2015
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Il modo in cui il Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati rischia di avere un impatto sul sistema politico italiano più incisivo del contenuto della legge stessa, cioè del sistema elettorale da essa previsto. Il primo dato caratteristico dell’approvazione dell’Italicum sta nel fatto che esso – una legge che ha come obiettivo la restaurazione di un sistema politico bipolare, che consenta ai cittadini di legittimare direttamente il governo e la sua maggioranza – è il prodotto di maggioranze variabili nel corso del suo lungo iter formativo. Anzi, si potrebbe addirittura dire che le varie tappe dell’elaborazione della legge sono state il catalizzatore della riarticolazione del sistema politico uscito dalle elezioni del febbraio 2013. Dapprima, infatti, il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi e, poi, Angelino Alfano sulla riforma elettorale – concluso quando Matteo Renzi era già segretario del Pd, ma non ancora presidente del Consiglio – è stato uno degli elementi utilizzati dal nuovo leader democratico per indebolire il governo Letta, che era nato attorno alle riforme costituzionali (un vero e proprio governo costituente, si ricorderà) e che su di esse si era successivamente incagliato. In seguito, il patto del Nazareno è stato utilizzato da Renzi come una sorta di controassicurazione rispetto alle turbolenze interne del suo partito e, reciprocamente, la minoranza Pd si è servita della legge elettorale per tentare di scalfire la posizione dominante che Renzi aveva conquistato dopo le elezioni europee dello scorso maggio.  Questo percorso è culminato nell’approvazione della legge in Senato, all’inizio di quest’anno (con il voto favorevole di Forza Italia, e senza il consenso di una parte del Pd), ma si è interrotto a seguito del riallineamento nel partito di maggioranza relativa in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica. Così nelle votazioni sulla legge elettorale a Montecitorio la legge ha avuto luce verde con una maggioranza molto netta, costituita da un 'corpaccione' centrale in cui, assieme al Pd e Area Popolare (Ncd-Udc), sono confluiti gli 'acquisti' parlamentari sulla sinistra (da alcuni ex deputati di Sel, fra cui lo stesso relatore della legge, Gennaro Migliore) e sulla destra (da Scelta Civica) del Pd stesso, mentre contro la legge si è delineata una opposizione molto frammentata, a destra (i molti rami in cui si sta articolando Forza Italia, oltre alla Lega) a sinistra (una parte della minoranza Pd e Sel) e tra i Cinque Stelle.  Renzi conta, insomma, su di una maggioranza che è difficile ritenere casuale e che invece è il prodotto delle dinamiche centripete del sistema politico in questi mesi le quali hanno poco a che vedere col risultato elettorale del 2013. Un assetto che è difficile non definire trasformistico, ben ricollegabile alla logica profonda della storia politica italiana, che la nuova legge elettorale – grazie al premio alla lista, e non alla coalizione, da essa previsto – potrebbe in futuro confermare, magari dietro una patina maggioritaria (che del resto non mancava neppure ai tempi di Depretis e Giolitti).  Questo assetto non è stato scalfito neppure dalla sostituzione degli esponenti della minoranza Pd in Commissione Affari costituzionali e dalla posizione della questione di fiducia (su una legge istituzionale come quella elettorale). Entrambi questi atti corrispondono alla logica del governo parlamentare di partito e al parlamentarismo maggioritario: l’idea che sta dietro di essi – e che li giustifica – è che i cittadini, oltre ai deputati, eleggono dei partiti politici, diretti da leader che ne incarnano la politica e che ne orientano l’azione parlamentare, rispondendo poi per essa nelle elezioni successive. Su questo principio si basano – sia pur in modi diversi – le grandi democrazie europee.  Ovvio, quindi, che tali leader esigano disciplina dai componenti dei loro gruppi parlamentari, ferma la libertà di voto di questi ultimi nella deliberazione assembleare. Ma se ciò è vero, non si può non notare che il puzzle del parlamentarismo maggioritario in questo caso è incompleto: la legittimazione democratica della maggioranza e del suo leader sono deboli alla luce del risultato elettorale del 2013 (pur esistendo, in fatto, alla luce delle elezioni europee del 2014); inoltre la composizione della maggioranza che il governo ha tentato di chiamare all’ordine con la fiducia è molto diversa da quella uscita dalle urne. La conferma di questo stato semiconfusionale è venuta dalla decisione di alcune decine di deputati della minoranza Pd di non votare la fiducia al governo sulla legge elettorale. Si tratta di una scelta assai netta, la quale, nella logica del governo parlamentare di partito, dovrebbe prefigurare l’uscita dal partito di governo e il passaggio all’opposizione. Si può ricordare, infatti, che nell’estate del 1990, cinque ministri della sinistra Dc si ribellarono contro la decisione del VI governo Andreotti di porre la questione di fiducia sulla legge Mammì, ma la ribellione si tradusse nelle dimissioni di quei ministri dal governo, non nel rifiuto di votare la questione di fiducia e la legge sulla televisione, che infatti passò anche con il voto della sinistra democristiana.  Anche da questo punto di vista il voto sulla legge elettorale rischia di prefigurare gli scenari futuri: ciò, ovviamente, avverrà in maniera chiara se quella minoranza democratica trarrà le conseguenze di quanto accaduto, uscendo dal partito e passando all’opposizione o a un appoggio esterno al governo, ma anche qualora decidesse – contraddittoriamente – di restare nel Pd: una volta saltata la logica del governo di partito, di cui la questione di fiducia costituisce l’epifania, restano solo aggregazioni politiche lasche (non più partiti politici in senso moderno) e il trasformismo trionfa. Depretis e Minghetti e l’Italia del 1880 sono un’utile metafora per capire l’Italia del 2015.
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