sabato 29 novembre 2008
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Nel pieno della crisi, mentre ancora si sgomberano le macerie e si fa il conto delle vittime, può sembrare quasi crudele dirlo. Ma è di scarsa importanza stabilire a quale dei tanti gruppi e gruppuscoli della galassia islamista appartenessero i giovani killer che hanno colpito Mumbai. Investigatori e agenti dei servizi segreti prima o poi li scopriranno e, come avviene da anni con i manovali del terrore, li renderanno inoffensivi. Conta assai più individuare il progetto, il senso, la filosofia dell'attacco rivolto con rara violenza e capacità organizzativa contro la capitale indiana. È questo il filo che può eventualmente portarci alla mente che ha ideato la strage, e intanto suggerirci le misure più opportune a proteggerci. Per giuste ragioni ma anche per comodità ci siamo abituati a considerare quasi solo il volto lucente della nuova India, il Paese che ormai condiziona il dibattito politico ed economico mondiale, che rifornisce di medici e ingegneri il mondo sviluppato. L'India di Bollywood, la fucina dei film più visti a Est di Roma e a Ovest di Hollywood, degli imprenditori miliardari, della crescita rampante (9% l'anno), delle grandi aziende produttrici di software, del nucleare e della bomba atomica. La medaglia, però, ha anche un'altra faccia: l'agricoltura che ancora occupa il 60% della forza lavoro, la ricchezza media per abitante ferma a circa 2.000 euro l'anno, gli oltre 50 milioni di disoccupati. E soprattutto, un'onda crescente di frizioni etniche, religiose e politiche che con frequenza agghiacciante si risolvono nel sangue. Sono di ieri le violenze indù sui cristiani (circa 26 milioni su 1 miliardo e 150 milioni di abitanti), dell'altroieri i massacri reciproci tra indù e musulmani. E, sullo sfondo, la tensione con il Pakistan, il vicino Stato islamico: l'India spende un milione di dollari al giorno solo per le truppe attestate sul ghiacciaio Siachen, nell'Himalaya, a 5 mila metri d'altitudine. Quanto è successo a Mumbai ha con tutto questo una profonda relazione. Ci dice, in primo luogo, che i lunghi anni della "guerra al terrore" non hanno abbastanza intaccato la capacità strategica di al-Qaeda, del cui stile la strage porta gli inconfondibili segni. Il punto è qui: arrivare a chi pensa, non a chi tira il grilletto. E che ci sia un pensiero è indubbio. La faccia nascosta del boom indiano (rancori etnici e religiosi, insoddisfazione economica, tensioni militari) rende relativamente facile, ai professionisti del terrore, l'arruolamento di giovani fanatici e disperati. Magari quelli appena usciti dalle scuole coraniche che i quattrini dei Paesi petroliferi del Golfo aprono in gran quantità sia in India sia in Pakistan. E l'attrito mai sopito con il vicino offre un facile "gancio" cui appendere le rivendicazioni di una minoranza come quella musulmana, in genere più povera e meno istruita, ufficialmente di poco inferiore nei numeri (155 milioni contro 170) all'intera popolazione dello Stato islamico per eccellenza, il Pakistan appunto. Se solo alziamo lo sguardo, notiamo che la strage di Mumbai risponde a una logica evidente: l'islamismo armato e strettamente connesso alla criminalità organizzata (primo fra tutti il narcotraffico) e ai rami incontrollabili dei vari eserciti e servizi segreti, è riuscito in tre-quattro anni a rendere di nuovo pericoloso l'Afghanistan e instabile il Pakistan. Ora tocca all'India e ai germi di fragilità che l'improvvisa e diseguale ricchezza non è riuscita a curare. Come si diceva, dietro i massacri c'è un pensiero, una strategia. Ora, è di rendere incontrollabile una parte dell'Asia ricca e bene armata, così come nel 2004 (strage sui treni di Madrid) e nel 2005 (le bombe nella metropolitana e sui bus di Londra) era di frammentare un'Europa già divisa sulle strategie Usa e sulle proprie. È il momento di riflettere e studiare per prevedere. Gli investigatori corrono in cerca degli assassini, e li scoveranno. Gli altri, per favore, facciano correre le idee.
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