venerdì 29 aprile 2016
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A pparivano come luoghi e strade che non avevano nulla da raccontare. Spazi larghi e vedute lontane, orizzonte piatto e glabro. Pietraie con qualche macchia di verde e tante spine. Polvere gialla, solo deserto. Damasco era lontana, dietro le nostre spalle. L’automobile correva sollevando volute di sabbia, superava un solitario carretto trainato da un cavallino bianco e magro, tagliando a metà l’ultimo borgo di case a cubo, basse, senza anima. E tanti bambini che si rincorrevano. Il viavai di autovetture scassate sputava bolle di nerofumo. Tendine abbassate, nascondevano i volti dei passeggeri che viaggiavano sui sedili posteriori. Ma la faccia del giovane presidente Bashar al-Assad, stampata sui grandi adesivi, spiccava su cofani e portiere. Ancora nulla, in quel 2008, faceva presagire al peggio, alla orribile mattanza che s’è poi abbattuta sulla Siria, stuprata dal demonio della guerra. L’aria era lattiginosa e il sole dell’est riusciva a liberarsi di questo manto bianco quando già era alto allo zenit. Rifiuti, buste abbandonate e lingue di plastica e carta, scorrazzavano vorticando nel vento, per finire la loro corsa prigionieri di roveti acuminati, pasto per pecore e capre. Quella terra arida, agli occhi dell’uomo mortale appariva inerte, povera e avara, ma in realtà celava e ancora conserva, il cammino dell’uomo nella Fede, nel Sacro, e del Mistero dell’Eterno e del Presente. Bisognava cercarlo. In quel deserto, un fiore profumava virtù, il monastero di Deir mar Musa el-Habaschi, coronato dalle grotte degli eremiti. Il monastero di Mosè l’etiope (Deir mar Musa el- Habaschi, ndr ), era lassù a 1.300 metri sul livello del mare, solitario, come per molti secoli lo era stata la torre osservatorio d’epoca romana, che, adesso, fungeva da fondamenta. Una piccola comunità monastica abbarbicata sulle montagne, dove il segnale telefonico, che pace!, non giungeva. E dove all’incontro del tempo con ogni nuovo tramonto e ogni nuova alba, era come congiungersi al silenzio, alla meditazione dello spirito. Alla pace. Rimanevano 345 scalini da salire, gli ultimi passi da fare, prima di ascoltare il tintinnio mattutino delle tazze da tè e il brusio degli ospiti venuti quassù da tutto il mondo per vocazione, per preghiera, per ecumenismo, per curiosità, per meditazione, per lavorare la terra, o solamente perché quelle porte erano spalancate a chiunque. Come un libro da scrivere. Il suo fondatore, l’uomo che con le sue mani robuste aveva recuperato quel 'rifugio' offerto al dialogo tra cristianesimo e islam, strappandolo alla pietra abbandonata, era conosciuto da tutti come 'l’italiano del deserto'. Saio e sandali, padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, ci venne incontro, mentre una donna araba, musulmana, varcava la stretta e bassa soglia della chiesetta santuario, per inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna. Dieci metri per dieci, affrescata d’incanto biblico, edificata nel 1050, nella chiesa di pietra, il dipinto del Cristo aveva il viso sfigurato, cancellato da una lontana incursione maomettana, dalla mano dell’Islam che non tollera la riproduzione dei volti sacri. «Viviamo come su due sponde dello stesso fiume, qui cerchiamo di interpretare la relazione dell’uomo con il suo Creatore», ci disse padre Paolo. Dove si trova ora «l’italiano del deserto», solo i suoi carcerieri lo sanno. A luglio saranno tre anni dal suo rapimento. Lo vogliamo ricordare nelle parole della preghiera della sua famiglia: «Un po’ di luce e un soffio di vento possano dare sostegno e conforto a te e a tutte le persone che da troppo tempo stanno soffrendo». © RIPRODUZIONE RISERVATA L’incontro con Padre dall’Oglio nel 2008, quando ancora la Siria era in pace e si coltivava il dialogo tra uomini di fede diversa
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