sabato 14 giugno 2014
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Una celebre poesia d’amore pubblicata sulla rivista “Poetry” nel 1952 da E.E. Cummings si conclude con i versi «I carry your heart, / I carry it in my heart» («Porto il tuo cuore, lo porto nel mio cuore»). Chissà se l’anatomopatologo di origini messicane, emigrato tanto tempo fa in America, F. González Crussí (la F. sta per Francisco, che in America è diventato il più secco e ruvido Frank, ma la prosa dell’autore ha piuttosto quell’andamento elegante e regale che c’è nel suo nome spagnolo), pensava a Cummings quando ha intitolato il suo libro Carrying the Heart che in italiano, Adelphi, ha tradotto in un più «medicalizzabile» Organi vitali.Il sottotitolo originale recita «Esplorare il mondo dentro di noi». Comunque sia, portare il cuore ha una doppia valenza: di averlo in petto, dentro una gabbia toracica, in un corpo che è un insieme di organi e parti, di strutture e parti molli, di membrane e liquidi; portarlo, dunque, proprio nel senso della interiorità anatomica, anche se poi sembra essere il cuore che da portato si fa portante, quantomeno come propulsore della perfetta e misteriosa «macchina umana»; l’altra valenza sta nella sua metaforicità e simbolicità, cui González-Crussí dedica parte dell’ultimo capitolo del libro.Pare che la principale preoccupazione della moglie di Louis Washkansky – chi era costui? Era l’uomo su cui, quasi cinquant’anni fa, il chirurgo Christiaan Barnard praticò il primo, epocale trapianto di cuore, a cui il paziente sopravvisse 18 giorni – fosse se il marito risvegliandosi col cuore di un altro in petto, l’avrebbe amata ancora: «Come tutti, pensavo che dal cuore dipendessero le emozioni e la personalità», disse rispondendo ai giornalist. Mentre Louis si stava appena riprendendo un altro giornalista gli chiese che cosa provasse, da ebreo, a portare il cuore di una gentile... Se fossimo stesi sul letto in una stanza d’ospedale, osservati come una sorta di prodigio della medicina, quanti di noi avrebbero voglia di rispondere a una domanda così stupida? González-Crussí dice di non conoscere la risposta (e forse non ha nemmeno ritenuto necessario cercarla), ma, trattandosi di un trapianto eseguito a Città del Capo, in Sudafrica, commenta ironico: «Il dottor Barnard agì a ragion veduta nell’evitare che la sua rivoluzionaria operazione chirurgica coinvolgesse due persone di razza diversa. In un Paese dove ancora si praticava l’apartheid, il meno che si può dire è che si conducesse con accorta prudenza». Ahimè, la prudenza dei dottori quando si tratta di passare alla storia dura poco, così ecco che al suo secondo intervento Barnard trapiantò il cuore di un uomo di colore su un bianco. A parte l’uso disinvolto della parola “razza”, che oggi stupisce un po’, González-Crussí però mette in luce fino a che punto possa giungere la stupidità umana quando si fonda su pregiudizi “razziali”: un giornale, infatti, scrisse che Barnard rischiava grosso perché «non esiste alcuna disposizione del Group Areas Act [la Legge sulle zone riservate] che consenta a cuori negri di vivere nei quartieri dei bianchi».Alternando pagine dove il surreale fa da contrasto alla descrizione dei progressi conoscitivi, medici e terapeutici nelle cinque aree funzionali della «macchina umana» (Digerente, Scatologia, Respiratorio, Riproduttivo, Cardiovascolare), la prosa di González-Crussí – che ha un timbro letterario e affabulatorio analogo a quello di Oliver Sachs, ma con in più un gusto “archeologico” che richiama certi trattatisti secenteschi che si avventuravano nei segreti del microcosmo umano –, ci guida raccontandoci una storia che, appunto, è custodita dentro di noi. Nel nostro corpo e negli organi che lo fanno funzionare. Perché, e qui parla l’umanista, la medicina moderna, dotata di enormi mezzi e capacità rispetto al passato, «tratta il corpo umano alla stregua di un meccanismo da manipolare a talento, rimuovendo o sostituendo componenti, ripristinando collegamenti elettrici, disintasando condotti ostruiti». Insomma, la macchina umana non è soltanto macchina. La sua storia (come abbiamo imparato a conoscerlo, a curarlo, a guarirla, ad allungarne la vita), è ricca di «memoria», è storia di empiriche induzioni e deduzioni talvolta fantasiose (si vedano le pagine esilaranti sul duo Fliess-Freud e la loro teoria dell’«asse rino-genitale», che legherebbe, per via del comune tessuto erettile del naso e dei genitali, il riflesso nasale a certe patologie sessuali), ma soprattutto è carica di esplicite o latenti metaforicità (ogni organo ha particolari significati extracorporali). E su questa idea González-Crussí sembra spingerci a considerarne più il miracolo che la funzionalità del corpo.
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