domenica 27 dicembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Per molti il lavoro non è altro che eseguire ciò che è scritto in un 'libro di regole'. Questo almeno pare pensasse Alan Turing, il geniale matematico che pose le basi per lo sviluppo dei moderni computer. Egli si riferiva alla possibilità che una macchina potesse diventare abbastanza intelligente da sostituire l’uomo nelle sue diverse attività, e le regole cui accennava erano quelle del programma che la macchina doveva svolgere. Anche per molti altri, però, il lavoro umano non è che un cieco eseguire, magari anche complesso, ma senza alcun contributo personale. Questo modo di intendere il lavoro ci pare figlio di una grande tentazione, quella, descritta magistralmente da Eliot nel settimo coro della Rocca, di sognare «sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono», cioè di metterci del proprio. Si tratta della grande tentazione del poter fare a meno dell’uomo, della sua libertà, del muoversi del suo essere, dell’esserci. Oppure il lavoro è espressione creativa dell’essere umano, fatto a immagine e somiglianza del Creatore. Si tratta, per certi versi, di una scelta di campo. Nel lavoro, in ogni lavoro, è possibile prima o poi cogliere l’ottusa ripetitività della macchina, ma si può anche trovare il contributo a una costruzione che senza il lavoro non ci sarebbe. Si tratta dunque di decidere dove porre l’accento e da sempre nel pensiero umano troviamo diverse posizioni a riguardo. Gli echi di questo dibattito arrivano fino a oggi, fino a noi. Basti pensare alle diverse reazioni suscitate dal recente intervento di Giuliano Poletti in merito alla necessità di superare, in qualche modo, la sola logica temporale quale criterio dell’attribuzione di valore al lavoro dell’uomo.  Alcuni hanno etichettato la suggestione del ministro del Lavoro con sgarbata sufficienza. Altri, come Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi proprio su questo giornale, hanno messo in evidenza la necessità di un approfondimento e di una contestualizzazione nell’applicazione di questo pensiero. Non si può che condividere l’esigenza da loro segnalata di ridefinire cosa si intenda per lavoro. Nel mondo attuale così foriero di cambiamenti, per lo più fonte di profonde e diffuse preoccupazioni, è grandissima la necessità di riaffermare un’antropologia positiva del lavoro. Così il tempo che stiamo vivendo mi richiama a un’altra dimensione del lavoro, quella dell’attesa. Nel lavorare, infatti, si coglie sempre un’attesa: «Sarà un lavoro ben fatto, riuscito, utile? Piacerà al mio capo, ai miei clienti?». Tanti sono gli interrogativi che porta con sé un atteggiamento non indifferente verso il nostro operare. Domande che in qualche modo rievocano il fare del Creatore. «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» ( Genesi, 1, 31). L’attesa è dunque una componente del lavoro, densa di trepidazione, ma anche di speranza. Quando lasciamo vincere il primo sentimento, quando l’esito possibile ci spaventa, in quel momento si apre la porta alla grande tentazione a cui accennavo all’inizio: che il nostro fare sia dettato da un 'libro di regole', che sedi la nostra paura.  Quando invece l’attesa è connotata dalla speranza il nostro io si mette in moto: «abbiamo visto la sua stella e siamo venuti per adorarlo» (Mt, 2, 2), i Magi raccontano così la loro impresa a Erode, che al contrario non aveva letto i segni dei tempi e di fronte alla domanda dei savi d’oriente si riempie di timore. Così, mentre accogliamo il Bambino, c’è in noi anche l’attesa di una vita buona, per questo e per gli anni a venire. Una vita in cui il nostro agire, il nostro lavorare sia la conseguenza di un desiderio di costruzione e non la cieca attuazione di un 'programma' alieno. Questo è l’augurio che oggi va rivolto innanzitutto ai giovani, che così spesso si muovono verso il mondo del lavoro come in una spaventosa terra incognita. È vero che il lavoro che verrà sarà diverso da quello che li ha preceduti, magari più difficile, ma bisogna che li aiutiamo a capire che sarà certamente alla portata del loro desiderio. Un augurio va poi anche a chi ormai è avanti negli anni, e magari in questo nuovo mondo del lavoro non ci si raccapezza, attendendo (anche qui con speranza, ma anche timore) il momento di uscirne. Non bisogna cadere nella tentazione di vivere il lavoro presente come una fatica da abbandonare, ma come la possibilità concreta di contribuire a costruire un mondo che già viene. Buon tempo di Natale a tutti. 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: