martedì 15 dicembre 2009
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«Non ac­cettere­mo mai che Kyoto venga ucciso, questo significherebbe uccidere l’Africa». L’ha dichiarato ieri un delegato del Mali, commentando la minaccia, avanzata dall’Africa, di boicottare i gruppi di lavoro al vertice Onu sui cambiamenti climatici, in corso a Copenaghen. Alle orecchie di tanti, se non un sussulto di vittimismo, potrebbe sembrare almeno un eccesso retorico. E probabilmente lo è, dal momento che molto si è discusso (e ancora si continua a discutere) sugli effettivi vantaggi del Protocollo di Kyoto, sul rapporto fra i costi sicuri – e non certo irrisori – ed i risultati – tutt’altro che matematicamente certi – che l’accordo dovrebbe garantire. Ma quel grido chiede di essere ugualmente ascoltato. Al di là degli aspetti squisitamente tecnici, c’è un dato simbolico importante che non può essere messo fra parentesi. Già, perché l’Africa che alza la voce non è qualcosa che si vede tutti i giorni. Alla protesta africana si sono uniti – riferiscono le cronache – i delegati del G77, ossia i Paesi in via di sviluppo. Perentoria la richiesta avanzata: rinnovare l’impegno per il taglio delle emissioni di anidride carbonica, previsto dal Protocollo di Kyoto, anche oltre il 2012. La protesta è rientrata dopo che – grazie alla mediazione danese – i delegati dell’Africa e degli altri Paesi in via di sviluppo sono stati rassicurati in merito alla loro sollecitazione. Jeremy Hobbs, direttore esecutivo di Oxfam International, una delle più importanti Ong, ha commentato con parole taglienti: «L’Africa ha tirato il freno d’emergenza per evitare che il treno deragli alla fine della settimana»: venerdì, infatti, è previsto l’arrivo dei leader di 120 Paesi per la fase negoziale conclusiva. «I Paesi poveri – ha aggiunto Hobbs – vogliono vedere un risultato che garantisca drastici tagli delle emissioni, mentre i Paesi ricchi stanno cercando di ritardare le discussioni sull’unico meccanismo che abbiamo per ottenerli, il protocollo di Kyoto». Che il solo meccanismo disponibile per ridurre le emissioni sia il protocollo di Kyoto – insisto – è questione discutibile. Non lo è invece il diritto, sacrosanto, dei Paesi poveri di vedere all’opera quello sviluppo solidale invocato dal Papa nell’Angelus alla vigilia dei lavori di Copenaghen. Ecco perché l’Africa chiede, a ragione, interventi concreti e urgenti e incalza il Nord del mondo. Qualcosa pare si stia muovendo, anche se siamo ben lungi dal poter giudicare soddisfacenti gli sforzi in atto. I Paesi industrializzati hanno promesso di offrire a quelli più vulnerabili un pacchetto di aiuti per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici. Proprio ieri l’Unione europea si è detta pronta a stanziare un terzo dei 21 miliardi di euro (in 3 anni) che dovrebbe costituire il primo passo concreto per intervenire sugli effetti. E spera che gli altri facciano la loro parte. Non possiamo, però, giocare con i numeri, dimenticando l’ordine di grandezza delle cifre in gioco: 21 miliardi di euro possono sembrare molti, così come a luglio parve una somma significativa quel pacchetto di 20 miliardi di dollari stanziato dal G8 per un fondo contro la fame. Faremmo bene, però, a ricordarci che soltanto per salvare la compagnia di assicurazioni AIG, travolta dalla crisi, gli Usa hanno sborsato la bellezza di 170 miliardi di dollari. Ora i poveri del mondo si attendono, legittimamente, che chi più ha metta a disposizione in misura maggiore per affrontare un problema che riguarda da vicino il bene comune della Terra e dei suoi abitanti.
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