sabato 4 giugno 2016
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Per il popolo armeno è il Medz Yeghern, il Grande Male. Per i turchi è un gigantesco rimosso, frutto di una torsione esasperata dell’identità anatolica, e quando si è costretti a nominarlo gli si antepone di rigore la parola sözde, che sta per presunto, ipotetico. Perché per l’orgogliosa storiografia nazionale il massacro accuratamente pianificato di oltre un milione e mezzo di armeni (e di altre centinaia di migliaia di cristiani orientali di diverse denominazioni e tradizioni) è poco più che un effetto collaterale del grande rivolgimento che portò alla dissoluzione dell’Impero Ottomano. Un massacro che i Giovani Turchi al potere – e tra essi Mehmed Talat Pascià, ministro dell’Interno dal 1913 al 1917 e considerato tra i massimi responsabili del genocidio – perpetrarono tra il 1915 e il 1916 ai danni della minoranza armena arrestando e deportando centinaia di migliaia di famiglie e inaugurando (con la fosca supervisione del colonnello tedesco Fritz Bronsart von Schellendorf e con il concorso attivo di un’altra etnia minoritaria, quella curda) le Todesmärsche, quasi una prova generale delle famigerate marce della morte con cui trent’anni più tardi i nazisti sterminarono migliaia di ebrei trasferendoli da un lager all’altro. Arroccata nella propria difesa identitaria, disposta a rischiare un macabro umorismo nel confutare quel sostantivo, “genocidio”, ritenuto improprio e inapplicabile alla vicenda armena in quanto “si tratta di un neologismo introdotto soltanto nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin”, di fronte alla questione armena la Turchia di Recep Tayyp Erdogan si scopre sorprendentemente immutata rispetto a quella del padre della patria Kemal Atatürk: dai comunisti del Türkiye Komünist Partisi ai Lupi Grigi dell’estrema destra, dai neokemalisti di Kemal Kiliçdaroglu fino – ovviamente – al grande ventre generoso dell’Akp, il partito islamico Giustizia e Sviluppo del presidente Erdogan, difficilmente nel Paese si troverà qualcuno disposto a condividere quello che dal 1965 a oggi 29 Paesi del mondo (con la scandalosa eccezione degli Stati Uniti) hanno ufficialmente riconosciuto: il genocidio degli armeni. Nel 2001 fu Giovanni Paolo II a stigmatizzare “lo sterminio di un milione e mezzo di cristiani armeni e il successivo annientamento di migliaia di persone sotto il regime totalitario”, dichiarazione ripresa lo scorso anno da papa Francesco («Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il Metz Yeghern, il Grande Male, come avete chiamato quella tragedia») in un piccolo ma greve coro di reazioni turche. Il negazionismo turco ha radici robuste e lontane. Fino al 2008 l’articolo 301 del Codice penale turco contemplava «l’Offesa alla turchità», che consentiva di imprigionare e mettere sotto processo giornalisti e scrittori (capitò anche al Premio Nobel Orhan Pamuk) che avessero anche solo alluso al genocidio armeno. «Quando i politici e i religiosi si fanno carico del lavoro degli storici non dicono delle verità, ma delle stupidaggini», sentenzia oggi Erdogan, che giusto due giorni fa ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore a Berlino dopo che anche il Bundestag – con curioso ritardo rispetto a tante altre nazioni europee – ha approvato quasi all’unanimità la risoluzione che definisce come genocidio il massacro degli armeni da parte dell’Impero Ottomano. Non è la prima volta che Ankara minaccia ritorsioni diplomatiche e non sarà l’ultima. In più Erdogan ha in mano il rubinetto dei flussi migratori provenienti dalla Siria e dal Medio Oriente e possiamo star certi che minaccerà di farne uso. Sarà forse per questo che né la signora cancelliere Angela Merkel né il ministro degli Esteri Steinmeier né il vice cancelliere Gabriel hanno presenziato al voto.Ma quello che nemmeno un satrapo anacronistico, e avvinghiato a una malintesa idealizzazione del potere autoritario e senza controllo, come Erdogan può evitare è di imbattersi ogni volta in quei pilastri su cui sono state costruite le democrazie occidentali: siano essi il ripudio della pena di morte, il rispetto e la tutela delle minoranze, la libertà di stampa, i diritti fondamentali dell’uomo, il diritto di esercitare liberamente il proprio pensiero. Parametri che uno Stato candidato a entrare nell’Unione Europea deve saper osservare e rispettare. Cominciando, prima possibile, a riconciliarsi con se stesso. Come ha fatto la Germania con la Shoah, senza per questo perdere l’identità né il proprio orgoglio, ma semplicemente riconoscendo il proprio passato e le proprie responsabilità.
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