Il giudizio e le attese
martedì 27 maggio 2014

​Ha vinto Matteo Renzi, dicono tutti. Ed è sorprendentemente vero, verissimo. Giudizio e attese sono concordi, e altrettanto sorprendentemente carichi di esclamativi e di interrogativi. Ha vinto con più del 40% dei voti, Renzi. Cioè come nessuno in Italia aveva più vinto, dopo la fine dell’esperienza grande, complessa e davvero popolare della Dc. E come nessun altro stavolta ha vinto nell’Europa che conta o che – come nel nostro caso – vuole tornare a contare. Ha vinto, da capo del governo, «mettendoci la faccia» e mettendola su di un progetto di cambiamento strutturale del Sistema Italia e, contemporaneamente, rinunciando a piazzare sulla scheda elettorale il proprio nome sopra quello del partito di cui è leader. Ha vinto su avversari che avevano portato all’estremo (e oltre) polemiche e invettive anche personali, senza andare, lui, mai al di là della battuta tagliente e della sferzata ironica.

Ha vinto con una tale nettezza, ribadita dai risultati delle elezioni regionali e comunali, da far arrossire i sondaggisti e da far quasi dimenticare l’esercito dei non-votanti (sceso in campo in modo mai così imponente, eloquente e incombente in occasione di una convocazione dell’intero corpo elettorale nazionale).È vero, ha vinto Renzi. Garantendo al Pd una capacità di presa e una dimensione tali che la somma dei consensi del secondo e terzo partito – Movimento 5 Stelle e Forza Italia – non basta, oggi, a eguagliare i voti del primo (e anche questo non accadeva da decenni).

Il distacco è talmente schiacciante da indurre Beppe Grillo a una sorniona gag farmaceutica da "Carosello" sul mal di stomaco, e da suggerire anche a Silvio Berlusconi toni responsabili da vecchio saggio. E tutto questo perché, secondo un’antica e sempre efficace formula di successo, il Partito democratico guidato da Renzi ha infine fatto l’impresa di "sfondare al centro". Ne sa qualcosa pure l’alleato Angelino Alfano e, soprattutto, se ne sono resi conto gli amministratori di quel che non resta più – un anno e infiniti errori dopo – del "terzo polo" a due cifre di Mario Monti. E questa conquista (tutta da amministrare e da rimeritare sul campo) è riuscita, paradossalmente, proprio nella prima tornata in cui il Pd innalzava in modo aperto le insegne "di sinistra" del Partito socialista europeo e non sbandierava ai quattro venti il ritorno alla «vocazione maggioritaria» delle origini.

Proprio così, ha vinto Matteo Renzi: riformatore e rottamatore, uomo-squadra e solista, liberaldemocratico e solidarista, istituzionale e irriverente, cattolico vero e irrequieto. Ha vinto col linguaggio e le scelte di un politico che si è fatto liquidatore di facce e miti della Seconda Repubblica e, di quando in quando, ha dimostrato di infischiarsene persino del politicamente corretto pseudo-progressista.

Ed è una vittoria forte, anche se tanti ancora non «stanno sereni» e non credono che sia lui la persona giusta per spegnere paura, rabbia e scoramenti e riaccenderli in forma di speranza, per archiviare schemi e metodi e blocchi che hanno fatto questo nostro Paese brutto e ostile alle famiglie, ai giovani, ai poveri e ai capitani davvero coraggiosi (profit e non profit). Quel quasi 42 per cento di renitenti al voto, vero primo partito d’Italia, lo dice e lo ridice con foga e addirittura di più del 21 per cento che il M5S ha raccolto tra coloro che alle urne invece ci sono andati, decidendo l’esito delle elezioni. Un voto dal valore doppio, come titolavamo domenica scorsa.

Un voto che, non c’è dubbio, Renzi ha vinto. E che, grazie a lui, ha vinto tutto il Pd, anche quello che lo sopporta appena, che vorrebbe frenarlo, indirizzarlo, normalizzarlo. È una vittoria cospicua e, per un decisivo verso, provvisoriamente e singolarmente fragile. Perché il problema adesso – per il Pd, per Renzi ma soprattutto, dal nostro punto di vista, per questo nostro Paese – è capire se si tratta fino in fondo della stessa vittoria. Se cioè il partito e il suo capo hanno davvero vinto insieme.

È un dubbio che va sciolto rapidamente. Ed è l’unico che pesa davvero. Del rapporto tra il presidente del Consiglio e i partiti o movimenti alleati, interlocutori e avversari sappiamo, infatti, già quasi tutto. E se fossero stati quei soggetti – Ncd-Udc, unico alleato sopravvissuto al dilagare elettorale del Pd renziano, o Forza Italia o Sel o la Lega o i parlamentari guidati da Grillo e Casaleggio – ad avere una parola decisiva per l’oggi (in Parlamento) o per il domani (quando ci sarà da tornare alle urne) qualunque osservatore avrebbe potuto valutare con buona approssimazione le possibilità della stagione delle "svoltabuona" di finire miseramente o di entrare sul serio nel vivo.

Ma la partita vera si gioca nel Pd. In ciò che il premier-segretario sa di dover fare, ragionando sulla via migliore e però tenendo soprattutto e saldamente fede alla promessa a cui più del 40% degli italiani ha stabilito di credere per non cedere a paura e rabbia. E in ciò che altri, tra i suoi compagni di strada, vorrebbero impedirgli o imporgli, anche a costo di commettere errori simili a quelli che così cari sono costati, in Francia, ai socialisti di Hollande. Renzi pare averlo chiaro. E lo ha anche detto, caricandosi di tutto il peso: dopo un giudizio elettorale così, non si può e non si deve sbagliare. Qui convergono le attese.

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