mercoledì 4 marzo 2020
Con il mercato del lavoro più precario aumentano disoccupazione e insicurezza e il sistema di welfare si rivela inadeguato Il peso dei debiti e le code alle Caritas
Il giorno in cui la Svizzera scoprì di avere molti poveri
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C’era stato un voto del Parlamento. Si voleva la verità. Il governo aveva commissionato ufficialmente quella ricerca. Addirittura, per ricostruire i redditi reali dei cittadini, il Fisco aveva spalancato i propri archivi; la qual cosa, in un Paese costruito sul segreto bancario, non accade tutti i giorni. Eppure, quando Christian Marazzi ha dimostrato che in Svizzera esiste veramente la povertà, non gli volevano credere: «Avevamo dato un volto nazionale a un fenomeno europeo – ricorda l’economista della Supsi, che coordinò lo studio del 1986 –, fatto non solo di senza tetto, ma anche di lavoratori schiacciati dalla flessibilità, di famiglie separate... Una conquista sul piano scientifico. Eppure, quando la tv annunciò che il 15% dei ticinesi era povero, la nostra Confederazione fu percorsa da un brivido: cosa avrebbero pensato gli investitori?»

La globalizzazione era entrata in Svizzera e non se ne sarebbe più andata, ma, ammette l’economista, ci sono voluti trent’anni per accettarlo. Del resto, si sa, ogni Paese ha la sua Caporetto, o per meglio dire, la sua Marignano. Dal punto di vista della Confederazione elvetica, che da cinquecento anni si tiene ben lontana dai campi di battaglia, accreditando l’idea che neutralità faccia rima con ricchezza, la sconfitta più vergognosa bussa ogni lunedì mattina alle porte della Caritas: giovani senza lavoro, famiglie scassate dalla crisi, padri separati e madri che debbono scegliere tra pagare l’affitto e riempire il piatto ai figli. Beninteso, i numeri sono svizzeri: la povertà reddituale colpisce il 7,9% (660mila su otto milioni e mezzo di cittadini), mentre il tasso europeo è 17,1 % e quello italiano 20,3 %. Si potrebbe dunque sorriderne, se non fosse che il tenore di vita svizzero, uno dei più alti d’Europa, contempla una serie di spese fisse, come i premi dell’assicurazione malattia. E’ obbligatorio averne una e le compagnie sono tutte private. Il fatto, poi, che le imposte non siano trattenute in busta paga espone al dissesto i meno previdenti: nel 2018, il 14,6% della popolazione non le aveva pagate o non aveva versato l’assicurazione malattia. Capita, quando il lavoro viene a mancare.

Neuchâtel era la capitale degli orologi: oggi è la città con il più alto tasso di aiuto sociale. Il principio di solidarietà – sancito dalla Costituzione federale e amministrato dai Cantoni – prevede un sussidio di mille franchi, più affitto e copertura sanitaria. Ne hanno diritto anche gli stranieri. Potrebbero riceverlo, una volta finito l’assegno di disoccupazione (70% o 80% dell’ultimo stipendio), i bancari di Ubs: il tempio della finanza elvetica ha appena annunciato centinaia di licenziamenti, adducendo 'motivi prettamente economici'. Gli stessi che spingono Cantoni come quello di Basilea a stringere i cordoni della borsa. «Cambia il mercato del lavoro e il nostro Stato Sociale mostra la corda – ammette Marazzi –. Non significa che le strade siano gremite di senza tetto: sale il numero di chi perde il posto, di chi non lo trova, di chi deve accontentarsi del part time e soprattutto di chi, non cercando più un’occupazione, sfugge alle statistiche».

Un autentico cancro per un welfare che, malgrado le iniezioni di solidarietà del mondo cattolico, è modellato dall’etica protestante: «Il nostro Stato sociale – spiega Roberto Sandrinelli, dirigente del Dipartimento della sanità e della socialità del Canton Ticino – nasce nel Dopoguerra con le leggi sull’assicurazione per vecchiaia e superstiti (AVS) e ha una forte impronta pri- vatistica. L’impianto non è redistributivo, come quello italiano, ma contributivo: ogni cittadino finanzia il welfare con il proprio lavoro e riceve prestazioni commisurate a quanto versato». Si inizia a pagare l’assicurazione sociale quando si nasce, perché questo piccolo Paese di montagna, diventato la cassaforte del mondo per una decisione del congresso di Vienna, ha vinto la fame e la pellagra ma non le ha dimenticate. «Nessuno viene abbandonato e nessuno deve abbandonarsi» sintetizza Sandrinelli, ricordando che il sussidio si accompagna a un sistema di controlli e di corsi di formazione, diretti a reintegrare la persona nel processo produttivo. È un welfare più luterano che calvinista: la centralità del premio assicurativo valorizza l’impegno personale e tutto fila liscio finché ciascuno contribuisce. L’equilibrio salta con la crisi del petrolio e, di nuovo, nel 2008. «La precarietà lascia buchi contributivi e assegni pensionistici decurtati – osserva Sandrinelli –. Sono state introdotte prestazioni complementari deducibili, ma anche il secondo pilastro può sgretolarsi».


Il tasso di povertà è aumentato di oltre un punto percentuale in cinque anni, particolarmente tra gli anziani (13,7%), le persone sole (24,8) e i single con figli minorenni (28,3) Il sistema di protezione non è redistributivo, come quello italiano, ma contributivo: si ricevono prestazioni commisurate a quanto versato

Nel 1986, quando gli svizzeri 'diventarono' poveri, il reddito di indigenza era di 1.700 franchi, oggi sono 2.300 per chi vive da solo e 4.000 per due adulti e due figli. Nel frattempo, sono esplose le spese, a partire dagli affitti e il tasso di povertà è aumentato di oltre un punto percentuale in cinque anni, particolarmente tra gli anziani (13,7%), le persone sole (24,8) e i single con figli minorenni (28,3). Solo l’uno per cento dei cittadini si trova costantemente al di sotto della soglia di indigenza, ma tutti gli altri entrano ed escono dalla zona rossa. Politiche sociali sbagliate, dunque, sono dinamite, visto che il 7% degli svizzeri è costantemente a rischio e il 5,6 vive comunque in condizioni difficili. Anche qui, all’origine della crisi troviamo la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Il lavoro interinale esplode «e l’intensità con la quale le imprese vi ricorrono carica il rischio sul- le spalle dei lavoratori» denuncia Renato Ricciardi, segretario cantonale del sindacato Ocst. Le statistiche federali si fanno qualche sconto, computando solo chi si iscrive agli uffici di collocamento, ma il sindacato, che lavora sui dati Ilo, parla del 4,6% di disoccupati (l’8,1 nel Ticino), 7% di sottoccupazione, 4,8% di contratti a chiamata, 4% di working poor.

Gli stranieri non hanno portato squilibri. I richiedenti asilo sono diminuiti – dai 40mila del 2015 ai 19mila del 2019 – e i frontalieri, additati talora come approfittatori sociali, si sono rivelati una risorsa: 335mila nella Confederazione e 70mila (un terzo della forza lavoro) nel Ticino; cinquemila di loro ricevono la disoccupazione, ma perché se la sono pagata mentre lavoravano. Per contro, i loro stipendi, denuncia l’Ocst, restano inferiori dell’8% a quelli dei residenti «e questa differenza trascina verso il basso anche i salari degli svizzeri: il mercato del lavoro è sommerso da un’offerta di lavoratori qualificati a basso prezzo provenienti dall’estero – osserva Ricciardi –. Solo l’applicazione di una contrattazione collettiva permetterebbe di regolarlo e va ampliata, in quanto dove ci sono contratti collettivi applicabili a tutti i lavoratori di un settore le condizioni sono più eque per tutti».

Questo risveglio della Svizzera in un’Europa impoverita si comprende davvero mettendosi in fila alla Caritas. Dove si scopre che, per una sorta di contrappasso, nel Paese delle banche si affoga nei debiti. «La pubblicità incentiva ad acquistare in leasing quasi tutto – spiega Dante Balbo, responsabile del servizio sociale – ma finché il lavoro ti accompagnava per tutta la vita non c’erano problemi, mentre oggi basta un periodo di disoccupazione – magari sommato ad altri rovesci, come la separazione dal coniuge – per perdere il controllo finanziario della propria vita». Dei 450 casi seguiti a Lugano, 232 rientrano in questa categoria. Secondo le statistiche federali, il 19% vive con almeno un debito in famiglia e l’8% ne ha accumulati tre. «I poveri li avrete sempre con voi diceva il Signore – commenta Marco Fantoni, direttore della Caritas ticinese – ma in questo caso siamo di fronte a un problema culturale. Ad alcune fasce giovanili non è stata trasmessa la cultura della fatica che ha permeato anche la nostra società contadina. Non si tratta di essere nostalgici, ma di tornare a insegnare a tutti quei valori che tengono in piedi una società».

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