martedì 7 aprile 2009
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Domenica notte, sono le 3 e mezza e di col­po mi sveglio... Cosa succede? Sarà la so­lita scossa, che ormai ci perseguita da più di un mese. Al cuore mi sale un pensiero istintivo, co­me sempre, «Signore pensaci tu, sant’Emidio, nostro protettore contro i terremoti, fai qual­cosa ». Però stavolta è diverso, ecco un boato, la scossa ancora dura, non finisce più... Mi alzo, e lo spettacolo appare spaventoso: gli utensili da cucina, i soprammobili, i libri, tutto finisce per terra. Un altro pensiero istintivo: afferro il cel­lulare e chiamo mia madre, che trovo in preda a una crisi di panico anche perché all’Aquila è andata via pure la luce, e per chi come lei abi­ta ai piani alti diventa pericoloso scendere le scale per mettersi in salvo. Subito mi chiama un amico sacerdote, poi un altro e un altro an­cora. Le domande sono sempre le stesse, an­gosciose: «Come stai? La casa? E la tua chiesa, in che condizioni è?». Esco e trovo alcuni miei parrocchiani fuori, in piazza, a Pìzzoli. Vedo le luci del municipio ac­cese, e comincio a capire che la cosa è vera­mente seria. Nella mia parrocchia sembra non sia accaduto nulla di grave, e allora mi dirigo ver­so L’Aquila, a vedere come vanno le cose a ca­sa dai miei cari, come sta l’arcivescovo, e i miei confratelli... Davanti all’ospedale vedo una di­stesa di lampeggianti che illuminano l’ingres­so, e questo non fa che accrescere la preoccu­pazione. Anche dai miei la gente è tutta fuori, impaurita, con le coperte al collo per il freddo pungente. Faccio salire mamma in macchina, poi passo da un amico. Il traffico della città è in tilt, il centro è inaccessibile, lo spettacolo è quel­lo di una via dolorosa: case crepate, alcune ra­se al suolo, persone in crisi di panico, c’è chi piange, e viene consolato. Giriamo tutta la notte aspettando un po’ di lu­ce che venga a calmare il nostro cuore. Un gi­rovagare silenzioso, interrotto solamente dai notiziari ai quali ci aggrappiamo per capire fi­no a che punto questo terremoto abbia voluto colpirci. Un silenzio fatto di tensione, e di pre­ghiera. La notizia di quattro bambini morti ci raggela. «Perché Signore? Perché proprio loro, perché il gigante terremoto ha scelto di com­battere con chi non ha forza?». Finalmente si scorge l’alba, la luce, adesso forse andrà un po’ meglio. Ma proprio mentre tentiamo di salire in casa, facendoci largo tra i calcinacci, ecco un’altra scossa. Ora però devo tentare di entrare in centro, vo­glio trovare il vescovo. Lascio la macchina in stazione e a piedi, attraverso la fontana delle 99 cannelle, cerco di raggiungere il duomo. Appe­na inizio la salita ecco due frati che conosco: u­no salvo per miracolo, l’altro piange per la fac­ciata della chiesa ridotta a metà. Continuando a salire incontro un amico con la gamba che sanguina: in casa l’odore di gas era fortissimo, non riuscendo ad aprire la finestra ha deciso di sfondarla come poteva. Ancora avanti, a fatica. La mia città è spettrale, solo tegole, pietre di­velte, palazzi diroccati. Eccomi alla fine in piaz­za Duomo, ecco un amico sacerdote tutto bian­co per la polvere: il soffitto della sua casa è crol­lato, ha dovuto scendere dalla finestra con un cordone fatto di lenzuola annodate. «Guarda la cattedrale – mi dice, sconsolato – dovevamo i­naugurarla a fine luglio per la Settimana litur­gica nazionale, invece ora è rimasta solo la fac­ciata... ». E il vescovo, dov’è? Monsignor Molinari ha trascorso la notte appoggiandosi a una del­le automobili parcheggiate lì attorno e per il re­sto consolando la gente. Vado per salutarlo ma non lo trovo: si è lasciato convincere dalla so­rella a trascorrere qualche momento nella ca­sa di lei. Sfollato anche lui, penso tra me, come migliaia di aquilani. Vado a vedere la parrocchia dove sono cresciu­to: la canonica non esiste più, crollato il pre­sbiterio. E poi la chiesa di San Giuseppe, delle Anime Sante, di Santa Maria Paganica, una se­quela di ferite aperte. Davanti alla Casa dello studente sento gridare: chiamate un medico, supplicano, serve analgesico per uno degli u­niversitari rimasti sotto le macerie. Finalmen­te raggiungo il vescovo, nel giardino della casa dov’è ospite si è creata una piccola Curia d’e­mergenza, dobbiamo chiamare subito tutti i parroci, capire, sapere. È appena arrivato il re­sponsabile regionale delle Caritas per coordi­nare gli aiuti, intanto continuano a giungere le telefonate di solidarietà di vari vescovi. Tutti ci abbracciano, e questo rincuora. È il momento di darsi da fare, con un’indicibile ansia nel cuo­re. E intanto la terra non si ferma, trema, trema senza sosta.
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