mercoledì 15 ottobre 2014
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Kobane, la cittadina siriana al confine turco assediata dai miliziani dell’Isis, si sta rapidamente guadagnando il poco invidiabile rango di città-martire. Come Srebrenica nel 1995, teatro di uno dei più terribili massacri del dopoguerra, dove almeno ottomila uomini bosniaci vennero trucidati sotto gli occhi dei caschi blu olandesi dell’Unprofor. O Sabra e Chatila nel 1982, dove le Falangi libanesi in segno di rappresaglia per l’attentato a Bashir Gemayel irruppero nei due campi palestinesi alla periferia di Beirut compiendo un eccidio senza che le truppe israeliane a guardia dei campi evitassero quel massacro.Kobane, in un sobborgo della quale fino a ieri sventolava la bandiera nera del Califfato, resiste. Ma il suo nemico principale sembra proprio non essere l’Isis, bensì Ankara. Il motivo è semplice e non è che la replica ennesima di uno iato forse insanabile nella società turca: gli abitanti di Kobane sono in prevalenza curdi. Essere curdo nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan - come già  in quella ormai lontana di Kemal Atatürk - è un problema e un rischio. Il Kurdistan stesso, una nazione cui non corrisponde uno Stato indipendente, è una spina nel fianco della Turchia. I curdi residenti in Anatolia sono almeno 20 milioni, altri 10 si disseminano fra Siria, Iran e Iraq. Parlano lingue e dialetti propri, praticano culti religiosi differenti, sono sia sciiti sia sunniti, ma vi sono fra loro anche tanti cristiani. In più hanno la sfortuna di occupare aree geologicamente appetibili perché ricchissime di petrolio, come il Kurdistan iracheno. Non tutto nella storia del popolo curdo è limpido e innocente. Basti pensare al Pkk, il partito guidato da Ocalan, responsabile per vent’anni di violenze e attentati, tanto da essere classificato dai turchi, dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea come organizzazione terroristica.Per Erdogan, padre padrone di una Turchia che gli ha assegnato con voto plebiscitario il nuovo mandato presidenziale dopo tre vittoriose  legislature come premier, l’agonia di Kobane è solo un incidente di percorso nell’insanabile conflitto con la Siria. Per noi invece - spettatori atterriti di questo spettacolo che vede i carri armati di Ankara schierati da giorni a poche centinaia di metri dalla cittadina assediata e tutte le vie d’accesso sbarrate, con i curdi siriaci prigionieri di una gabbia a cielo aperto dove si combatte e si muore ma da dove non si può più fuggire - Kobane è soprattutto la straziante allegoria di un’immane omissione di soccorso.Ma il cinico silenzio di Erdogan non si limita a ignorare le richieste di apertura di un corridoio umanitario che provengono da ogni parte del mondo. Erdogan ha due differenti priorità: la prima è quella di abbattere definitivamente il regime di Bashar al-Assad; un obiettivo per raggiungere il quale è disposto a venire a patti con l’Is (cosa di fatto già avvenuta con lo scambio di ostaggi, 180 jihadisti contro un gruppo di diplomatici). La seconda è impedire che una troppo vistosa riscossa dei peshmerga (i guerriglieri che si battono difendendo la città casa per casa) rivitalizzi l’irredentismo curdo e riassegni al Pkk di Ocalan il ruolo-guida nel Kurdistan. Come dire, meglio un califfo dell’Is alle porte che un curdo troppo molesto in casa. Come interpretare altrimenti le incursioni che l’aviazione di Ankara sta compiendo su postazioni del Pkk entro i confini stessi della Turchia se non come il minaccioso preannuncio di una possibile guerra civile? Kobane, hanno deciso Erdogan e il suo premier Ahmet Davutoglu, può ben perire per una gelida e cinica ragion di Stato. E nessun appello di politici come Hollande e Ban Ki-moon o di intellettuali come Bernard-Henri Lévy li farà recedere. Solo la pura convenienza politica potrebbe far cambiare loro idea. E per ora nessuno è in grado di assicurargliela.
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