Il futuro è partecipazione (a tre gambe)
giovedì 7 gennaio 2021

Questa volta non dovrebbe essere un problema di risorse, da trovare magari all’ultimo minuto, perché i fondi ci sono. E nemmeno di buone idee, vecchie o nuove che siano, da scaricare però a terra come progetti realizzabili. L’irripetibile occasione fornita dal Next Generation Eu per scuotere il torpore in cui il sistema economico italiano langue da vent’anni – e instradarlo verso un modello di crescita sostenibile – si potrà cogliere soprattutto sul piano del metodo. Il 'quanto' è infatti oramai arcinoto. E non è certo poco: duecento e passa miliardi comunitari fra trasferimenti e prestiti. Il 'cosa' è altrettanto definito: in larga parte transizione verde e digitale, circa un terzo per infrastrutture, istruzione, ricerca e sanità.

Tutto però in ottica inclusiva, per provare cioè a ridurre le disuguaglianze di reddito e patrimonio, quelle geografiche dentro l’Italia, nonché le disparità di genere e opportunità. La vera partita, in tanti lo stanno indicando, si gioca dunque sul 'come'. Che si porta dietro il 'chi': quali figure sono in grado di non disperdere sul territorio la potenza di una visione, il Paese e l’Europa per la prossima generazione, e i miliardi necessari per realizzarla? Attenzione, l’ostacolo non sono le schermaglie politiche sulla cabina di regia o sulle nomine di quali e quanti supermanager.

Le questioni di forma sono ben più serie e profonde: «Le idee più potenti sono i metodi», diceva il filosofo tedesco che pensava di aver ucciso la metafisica. Utile è interrogarsi piuttosto sulle ragioni per cui sinora non siamo mai riusciti a spendere, su base regionale, tutti i Fondi strutturali europei. Il primo nodo da sciogliere non è quindi al centro, ma in periferia. È alla base, non al vertice. Bisogna insomma trovare un metodo per far sì che se arriverà dall’Europa una colonna di Tir carichi di progetti e di soldi per realizzarli, non si crei un ingorgo paralizzante al casello di Bologna o alla barriera di Mercato San Severino. La differenza la farà cioè il funzionario della Pubblica amministrazione in periferia più di qualsiasi consulente, fosse anche un fuoriclasse, distaccato a Palazzo Chigi. Perché la coesione richiede una governance bottom-up, dal basso all’alto, non viceversa.

E perché l’effettiva erogazione delle risorse del Recovery Plan è condizionata proprio al raggiungimento degli obiettivi legati agli interventi realizzati 'sul posto'. Insistendo ancora sulla presa territoriale del Recovery Plan, quella dirimente, s’intravede un secondo errore di metodo da correggere nella bozza predisposta per provare questa volta spendere – e a spendere bene – i 209 miliardi della ricostruzione: il mancato coinvolgimento del Terzo settore. Non tanto come beneficiario di fondi, ma quale cabina di trasformazione dell’alta tensione progettuale che c’è nell’aria. Un Terzo settore che ha sempre più una funzione di regia, insieme alle amministrazioni decentrate, nella realizzazione dei servizi alle persone e quindi nel nuovo Welfare. L’Economia civile, quella dei beni comuni, è forse uno dei dispositivi più potenti per generare cambiamento.

E lo è ancor di più oggi, con la sua metrica intergenerazionale, quando il virus agisce sul corpo politico ed economico schiacciando i tempi di progettazione sulla risposta immediata all’emergenza. La Corte costituzionale ha da poco elevato lo status economico-giuridico degli enti not for profit a quelli di Stato e mercato. Non ci sarà effettiva misurazione d’impatto sociale del Next Generation Ue, quella richiamata pure da Mario Draghi, escludendo il modello di sussidiarietà circolare che vede una programmazione condivisa tra pubblico, privato e non profit. Un’alternativa disponibile tra il capitalismo di (troppo) Stato e quello di (solo) mercato è, del resto, proprio il capitalismo comunitario.

Dove è già in atto un rovesciamento di prospettiva strategicamente funzionale al Piano di ripartenza: dal 'pensa globale e agisci locale' degli anni Novanta si sta passando al 'pensa locale per agire globale' delle tante imprese innovative, non solo in campo sociale, che nascono oggi. Le uniche in grado di guidare la crescita domani. Il successo in Italia del Next Generation Eu è condizionato pertanto alle risorse materiali e ancor più immateriali che investiremo nell’individuare sul campo, non in tribuna, i valutatori pubblici, privati e della società civile capaci di selezionare e far crescere ciò che conta per il bene comune nel lungo periodo senza badare al consenso opportunistico di corto respiro.

E cioè in quanto e come spenderemo per rigenerare la Pa in periferia e costruire ponti con l’Economia sociale. «Chi ha un perché abbastanza forte può superare qualsiasi come», diceva ancora il pensatore che voleva azzannare il mondo delle idee. Il progetto della Regione Lazio, illustrato in questa stessa pagina, un perché molto forte e condiviso, ad esempio, ce l’ha.

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