sabato 16 dicembre 2023
Hanno fatto discutere le sue prese di posizione sull’immigrazione e gli omosessuali. Ora si candida a interpretare i sentimenti di parte dell’elettorato. Verso la politica con un passato “ingombrante"
Il generale Roberto Vannacci

Il generale Roberto Vannacci - Ansa

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È diventato sia l’alfiere del buon senso sia il bersaglio delle critiche al politicamente scorretto. Pochi lo conoscevano e nessuno l’ha visto arrivare. Però ha venduto (forse) un milione di copie del suo libro autoprodotto ed è diventato un opinionista conteso quanto moderato. E in tanti, soprattutto la Lega, lo vogliono in politica. Già alle prossime elezioni europee. Roberto Vannacci, 55 anni, nato alla Spezia ma cresciuto a Ravenna, figlio di un capitano di artiglieria, è un generale dell’Esercito che ha fatto irruzione nella scena pubblica dividendo e conquistando, un fenomeno che merita di essere indagato e raccontato con ampiezza. Nel modo più obiettivo, scavando nel suo passato e illustrando come lui vede il presente. In proiezione di un futuro che potrebbe essere da rappresentante eletto. E forse non di ultima fila.

Il libro-bomba

Rispetto a ciò che Vannacci ha visto, l’Italia è Un mondo al contrario, come recita il titolo del suo volume, che l’ha proiettato alla notorietà, lui che ha guidato le missioni militari all’estero fra le più rischiose degli ultimi decenni. Ex Jugoslavia, Ruanda, Iraq. E soprattutto Afghanistan, dove nel 2006 fu il primo comandante della Task Force 45, ovvero l’élite delle forze speciali italiane, che in quel teatro di guerra ricopriva un ruolo di punta nella caccia agli obiettivi talebani, operando anche a un tiro di schioppo (in ogni senso) dai santuari integralisti nel Baluchistan pachistano, crocevia dei traffici di armi e droga, tantissima droga. «Al comando di uomini veramente speciali ho girato il mondo – scrive –, ma non quello delle capitali e del progresso, bensì quello più recondito e sconosciuto, quello povero, abbandonato, degradato e spesso pericoloso, ma reale. Quello vero, in sostanza, dove vive la maggioranza della popolazione del pianeta: circa sette miliardi di persone al netto di quel miliardo di fortunati che hanno visto la luce in quello che definiamo “Occidente”» Un’esperienza personale, la sua, «insolita e affascinante, maturata in luoghi lontani e in circostanze dove i millisecondi per prendere decisioni, spesso drastiche, fanno la differenza». La premessa è necessaria per inquadrare non solo l’autore di un pamphlet che da mesi domina le classifiche, ma anche il “fenomeno” Vannacci, inteso come movimento d’opinione che è cresciuto sull’onda di affollatissime presentazioni, partecipazioni televisive e sortite da commentatore nazionalpopolare. Ormai ogni fatto di cronaca, se visto dal centrodestra, va condito con il commento del generale, che invece si attira le critiche del centrosinistra per la commistione tra la divisa che deve essere sopra le parti e l’abito scuro con cui emette giudizi di parte. Quando il gioielliere-giustiziere di Cuneo ha chiesto la sua intercessione per evitare il carcere, non si è tirato indietro: «Sto dalla sua parte, per me difendersi non è mai reato».

Il suo consenso trasversale

Vannacci trova consensi anche in ambienti variegati. L’Unione Giuristi Cattolici di Piacenza ha invitato l’alto ufficiale per il 20 dicembre: doveva parlare in una sala parrocchiale, ma bisognerà cambiare sede perché sono attese migliaia di persone. Le posizioni del generale-saggista, insomma, affascinano in modo trasversale. Anche Matteo Salvini lo osserva e lo corteggia. Lo ha visto due o tre volte in privato – dicono fonti ben informate ad “Avvenire” – e si parla con sempre più insistenza di una sua candidatura nelle file leghiste. Il neocapo di Stato maggiore del comando delle forze di terra (dove è arrivato dopo lo spostamento dall’Istituto Geografico Militare di Firenze), sottoposto a inchiesta disciplinare per il suo libro, può rappresentare una novità in chiave elettorale, anche in prospettiva del “premierato” in cui crede fortemente Giorgia Meloni? Forse un passo eccessivo, in una Repubblica che non ha mai visto ex militari nelle più alte posizioni politiche. Di certo il suo potenziale programma, trattando argomenti sensibili come criminalità, migranti, tasse e ambiente, riesce a toccare corde profonde e intercettare il perenne scontento che assale gli italiani quando si avvicinano alla cabina elettorale.

Da soldato, come ama definirsi, ha riscosso più consensi all’estero che in patria. Destino peraltro condiviso con quello dei “suoi” incursori, cui non è mai andato giù che i vari governi nascondessero le loro imprese afghane, quasi vergognandosene. Mentre ricevevano elogi ed encomi da tutti gli alleati, in Italia venivano fatti passare per un’armata “clandestina”. L’ex comandante del reggimento Col Moschin e poi della Folgore (per citare solo alcuni suoi incarichi) ha un ego importante, forse persino ingombrante. È abituato a metterci la faccia, come quando denunciò l’esposizione dei militari italiani all’uranio impoverito. «Non mando i miei uomini in zone contaminate», arrivò a dire. Un “ammutinamento” che fece tremare le alte sfere dell’Esercito. Un uomo dalla schiena dritta. Anche rigido, forse. Pronto però ad ammorbidirsi quando si parla delle sue amate figlie di 9 e 11 anni: «Vogliono fare le youtuber», ha spiegato con tenerezza paterna, disposto ad accettare a casa quello che forse criticherebbe in tv.

Se da militare ha scalato in fretta le gerarchie, in politica forse spera di fare altrettanto. E Vannacci non si nasconde: « Non escludo nulla». Dopo aver seminato idee, decisamente controverse, il generale sta prendendo atto che in qualche modo attecchiscono. Dopo l’estate in prima linea era tornato tatticamente nelle retrovie. Ma è durata poco, perché il nuovo incarico l’ha catapultato nuovamente al centro dell’agone politico. Non solo per meriti propri, va detto. Perché l’Esercito ci ha messo del suo. Con una mano l’ha promosso, con l’altra lo vuole punire. Lui per ora si gode la licenza familiare (chiesta prima della nuova bufera, ha puntualizzato Crosetto) e osserva. La sinistra è insorta, la destra ha sottolineato che non si tratta di un avanzamento.

Mira a un incarico di prestigio

Per Vannacci ci sarà un incarico da scrivania, ma lui si è affrettato a spiegare che «comanderò due o tre generali e un certo numero di colonnelli». Ovvero, non sono e non farò il passacarte. Intendiamoci, nessun messaggio da uomo forte. Lo stesso Vannacci è abituato a condividere, prima ancora che a difendere, i valori della Costituzione. In primis, quello della libertà di parola, garantito – ribadisce con fermezza - anche a chi porta le stellette. Di qui lo scontro con il ministro della Difesa, che dopo il libro lo censurò pubblicamente. Secondo Piero Laporta, già generale del Genio e oggi saggista, paradossalmente è stato proprio il faccia a faccia con Crosetto ad accendere i riflettori su una vicenda che altrimenti, dice, sarebbe scivolata via senza clamore. «Il ministro ha sbagliato a tirare le orecchie a Vannacci. Il mio precedente è illuminante. Nel 1994, ancora in servizio, scrissi un articolo sui soldi che i servizi segreti avrebbero dato all’ex presidente Scalfaro. Scoppiarono le polemiche, ma lo Stato maggiore intervenne a mia difesa, sostenendo che ero libero di scrivere quello che volevo. La cosa finì lì. In questo caso mi sembra una operazione di marketing. Vero, Vannacci guidava le forze speciali e le sue capacità militari non si discutono. Ma la politica, parafrasando Clemenceau, è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali».

Non c’è uno spettro autoritario che si aggira per l’Italia. Semmai, Vannacci prende a cannonate il perbenismo e i veri o presunti paraocchi ideologici che spesso viziano il dibattito italiano. Le soluzioni di Vannacci possono essere discutibili, alcune decisamente fuori bersaglio, ma la sua analisi parte dall’osservazione di dati reali. Da “aneddoti” come li chiama lui. Prendiamo il tema dell’ambiente. Ben venga la cura del Creato e la ricerca di uno sviluppo sostenibile, afferma il generale, purché non si basi solo sulla logica dei no e del senso di colpa che accompagna una buona fetta dell’intellighenzia occidentale. «Non ho mai visto ambientalisti a Kabul – scrive – dove d’inverno la gente per sopravvivere deve riscaldarsi bruciando i copertoni delle auto, respirandone i miasmi tossici». Non è uno slogan, ma il racconto di ciò che accade nel “mondo degli altri”, quello che, secondo lui, fila dritto verso il futuro senza tuttavia dimenticarsi i valori del passato. Quelli più autentici e condivisi che rischiano – insiste - di essere annacquati da uno storytelling artificiale, scollato dalla realtà.

Nel suo libro (diviso per temi, nemmeno fosse un manifesto politico) Vannacci non propone ricette miracolose, semmai lancia un invito ad affrontare i problemi con soluzioni mirate. In questi mesi, il generale è stato ridotto a macchietta dagli avversari, bollato come nostalgico, intollerante, omofobo. Non senza ragioni, visti i giudizi – solo per citarne alcuni - verso la pallavolista di colore Paola Egonu («i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità») e l’omosessualità («non può rientrare nella normalità anche tenuto conto delle percentuali estremamente minoritarie dei suoi adepti»). L’ultima spallata di Salvini durante la convention euroscettica di Firenze (« Riprendiamoci l’Europa e liberiamola da chi la occupa abusivamente ») potrebbe aprire la strada, come detto, a una candidatura di Vannacci per un posto a Bruxelles l’anno prossimo.

Il nodo dell'immigrazione

Ecco il suo pensiero su un tema caldissimo, quello de migranti. Anche in questo caso Vannacci parte dalla sua esperienza in divisa. «Insegnavamo a tutti i militari il rispetto e l’accettazione delle tradizioni locali perché ogni cultura percepisce come estraneo ed invasore chi non si integra nel suo tessuto ». Un rispetto che, una volta rientrato in patria, il generale dice di non ritrovare in chi sbarca. «Non ho la pretesa di cambiare il mondo e non sono tra i sostenitori dell’esportazione della democrazia e dei valori universali dell’uomo ma non voglio che nessuno cambi il mio di mondo». Quindi, cosa propone? «La regola del divieto di respingimento forse è da rivedere o da declinare in modo diverso altrimenti i flussi continueranno inarrestabili. Se le normative e gli impianti legislativi in atto non sono adeguati a regolare i flussi migratori un loro emendamento a livello nazionale ed europeo è necessario».

Vannacci cita anche il giro di vite deciso da Svezia e Danimarca, definendo «un fallimento» la società multietnica. Un modello artificioso, secondo il generale, proposto da chi è allergico alla meritocrazia – che invece, sottolinea, è da incentivare a prescindere da etnia, religione, orientamento sessuale - e accampa diritti solo sulla base di una appartenenza a questa o quella categoria. È quella che chiama «la dittatura delle minoranze», che avrebbe «prevaricato il concetto di democrazia, dove la maggioranza decide ed il resto si adegua».

A parere di Vannacci accade l’esatto opposto, di qui l’espressione “Il mondo al contrario”. Sono concetti non così lontani da quelli espressi da politologi americani “dem” del calibro di Mark Lilla, che nel suo saggio L’identità non è di sinistra

dice, magari in modo meno ruvido, che i progressisti negli ultimi anni hanno perso di vista le esigenze della maggioranza, proprio perché si sono di volta in volta “innamorati” di qualche battaglia a favore della minoranza di turno. Il futuro della nostra civiltà, torna a dire Vannacci, si gioca qui: le minoranze vanno tutelate, ma i loro sacrosanti diritti non devono trasformarsi in privilegi o posizioni di rendita. Visione da maneggiare con cura, certamente, anche perché in certi punti si spinge verso sgradevoli estremi. A qualche osservatore di altri mondi - quelli sotterranei dell’intelligence - le posizioni più ardite hanno ricordato quelle di Kirill, il patriarca ortodosso anti-gay, considerato uno degli ideologi di Putin.

La "simpatia" per Mosca

Il generale, nelle numerose interviste, non ha avuto difficoltà a elogiare la percezione di ordine e sicurezza che si respira a Mosca, dove ha servito come addetto militare in ambasciata. Posizioni che hanno fatto storcere il naso (eufemismo) anche in ambienti della Difesa. Certe affinità ideologiche, in un panorama conservatore internazionale che continua a ispirarsi al trumpismo (con il guru Steve Bannon sullo sfondo, magari), non possono passare inosservate. Personaggio complicato, Vannacci. Difficile decifrarlo, probabilmente impossibile manovrarlo. Sa il fatto suo e ha gestito situazioni critiche. Uomo addestrato ad agire, ma capace di pensare: tre lauree (in Scienze strategiche, Scienze internazionali e diplomatiche, Scienze militari) e nello zainetto sempre qualche buon libro.

«La mentalità è quella dell’incursore – spiega un ex parà -: se una cosa va fatta perché giusta, si fa. Senza troppi calcoli sugli effetti collaterali». Vannacci avrebbe anche la “simpatia” degli apparati di intelligence. Perlomeno di quelli più efficienti e operativi, forgiati nelle missioni all’estero. Ieri vegliavano sull’incolumità dei suoi soldati, oggi potrebbero “coprirgli le spalle” in caso di ascesa politica. Non è un mistero che burocrazia e potentati assortiti siano avversari temibili con cui confrontarsi nella gestione quotidiana del Paese e nelle scelte da compiere. «L’Italia non è l’Afghanistan – sorride Laporta – bisogna fare i conti con i direttori generali». Come si dice: dai nemici mi guardi Iddio, che dagli amici mi guardo io. Una lezione che il generale Vannacci ha imparato a memoria sul campo di battaglia. ​

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