Il dolore dei ragazzi "spensierati". Silenzio che chiede ascolto
Etichettiamo i giovani come «sdraiati» o «indifferenti». Comportamenti autodistruttivi, ricorso a droghe o gesti estremi dicono altro. Serve un adulto che si fermi e chieda: «Perché stai così?»

L’immagine più diffusa sui giovani è quella di una generazione spensierata, un po’ indifferente e un po’ irresponsabile e che è capace di godersi la vita. “Sdraiati”, “schizzinosi”, “sfigati”: erano alcune delle etichette in voga alcuni anni fa per rappresentare i ragazzi e le ragazze e il loro atteggiamento di fronte alla vita. Ma chi ascolta i giovani e non si accontenta di guardarli dall’esterno si rende conto che in loro vi sono esperienze di dolore difficili da capire e da raccontare. Quando la cronaca riporta notizie di gesti estremi o di comportamenti distruttivi e autodistruttivi spesso ci si sorprende; sembra difficile immaginare che quel ragazzo o quella ragazza con cui fino a ieri abbiamo parlato e magari condiviso impegni, avessero dentro di sé uno stato d’animo disperato e un proposito di morte. Com’è possibile che nessuno si sia accorto di niente? O le nostre relazioni sono troppo distratte o chi vive queste situazioni è abile nel mascherare ciò che porta dentro di sé. È difficile per i ragazzi stessi trovare parole per raccontare una sofferenza senza nome, talvolta senza una causa apparente. È un dolore tutto intimo, profondo, che riguarda il senso stesso della vita e le espressioni concrete di esso; è un’inquietudine indefinita, come nel caso di questa ragazza: «In questo periodo ho la testa colma di pensieri che mi logorano il cervello come se ci fosse una persona lì dentro che martella tutto il giorno per provare a creare una casa perfetta, e ogni tanto cadono dei pezzi. Allora lì ad aggiustare e ad aggiustare… è un ciclo continuo e infinito e i pensieri si alternano continuamente senza darmi tregua». Vi è un pudore nel manifestare ciò che abita la profondità del cuore che rende riservati e discreti; che talvolta rende persino spavaldi, nel mascherare stati d’animo di fronte ai quali ci si sente impotenti e di cui talvolta ci si vergogna.
Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma se ai giovani oggi non manca niente! Hanno il necessario e quasi sempre anche il superfluo! Che cosa vogliono di più?». Ciò che li fa soffrire è la mancanza di qualcosa che non si compra al mercato né si trova in discoteca; è affetto, è senso, è stima, è considerazione, è serenità…, beni che sbocciano solo in relazioni autentiche e che hanno radice nella propria interiorità. Mai come in questo caso si tocca con mano la verità della parola del Vangelo: «Non di solo pane…». Il dolore nasce dalla mancanza di ciò che si ritiene necessario per vivere; il desiderio insoddisfatto lascia il posto alla paura, all’ansia, al senso di inadeguatezza. Scrive questo giovane: «Sono stanco di sentirmi vuoto e ho paura per me e per il mio futuro». Il futuro è un pensiero che assilla chi sta cercando di definire la propria identità e il proprio progetto di vita. La testimonianza di questo giovane è molto significativa al riguardo: «Costantemente penso cosa farò da grande, e a volte desidero di rimanere sempre bambino e di non crescere più. Non so se la vita che farò da grande mi piacerà».
L’ansia, la paura spesso stanno insieme a un senso di solitudine che non sempre è mancanza di amici o di relazioni significative, come nel caso di questo adolescente: «Sono circondato da molte persone eppure mi sento solo, sono amato dalla mia famiglia, eppure sento che non c’è più una famiglia». È la sofferenza del diventare grandi, del travaglio dell’adolescenza, del passaggio dal proprio essere bambini alla consapevolezza di non esserlo più e di non sapere ancora chi si è, per cui si dice, come qualcuno dei ragazzi intervistati, «mi sento perso». Ma dichiarare la propria solitudine è anche un modo implicito per dire il proprio desiderio di avere accanto un adulto credibile cui poter dire il proprio stato d’animo e cui affidarsi come a un punto di riferimento per orientarsi; un adulto che si fermi e chieda: «Perché stai così?».
La solitudine e il senso di incertezza sul futuro generano ansia e preoccupazione che spesso la scuola e la famiglia contribuiscono ad accrescere: «Sono sempre in competizione con me stessa per migliorare – dice una giovane –. Ciò che è brutto è che mi confronto con gli altri per ottenere quello che loro hanno e fanno, e mi sento inferiore». La famiglia diviene spesso complice della logica da prestazione e da competizione vissuta a scuola, come nel caso di questa adolescente: «I miei sono molto severi riguardo alla scuola; soprattutto mio padre vuole che prenda sempre voti alti e che sia la prima della classe. Io ci provo, ma resto nella media anche quando studio; il problema è che quando i miei vedono le insufficienze mi sgridano e non mi parlano più per giorni, perché si vergognano di avere una figlia così, che va male a scuola». La scuola ha molta responsabilità, secondo gli studenti, nel generare sofferenza e solitudine. Un ragazzo dice, rivolgendosi agli insegnanti: «Fate capire agli studenti che sono visti. Visti davvero». Sentire di non essere visti significa non esistere, proprio in quel contesto nel quale si trascorrono molte ore della propria giornata. È una sensazione frustrante, alla quale si aggiungono talvolta difficoltà di relazione con i compagni; le amicizie dell’adolescenza sono esigenti, selettive e hanno un sapore di decisività. Non avere amici o non sentirsi capiti dai propri amici contribuisce al senso di solitudine e di inadeguatezza che molti ragazzi e ragazze sperimentano.
Vi sono molti casi in cui queste situazioni vengono a poco a poco superate con la crescita, e tuttavia non senza lasciare segni nella storia personale di questi giovani. Vi sono non pochi casi in cui dal proprio dolore non si vede via di uscita. Si spiegano così i gesti di autolesionismo, o il ricorso alla droga, o addirittura il suicidio. Una giovane, in una recente conversazione, ha detto: «Il mio unico sogno è morire perché questa vita non fa proprio per me». Episodi fin troppo frequenti dicono che queste affermazioni non sono modi di dire, ma parole alle quali seguono decisioni. E poi vi sono i ragazzi che si fanno del male da soli, che sperimentano come un’ossessione il bisogno di farsi del male, «come se la testa ti dicesse che devi farlo per stare bene». E a proposito dei disturbi alimentari, questa adolescente scrive: «Non volevo mangiare, anzi all’inizio volevo dimagrire un po’ perché avevo qualche chilo in più rispetto alle altre mie amiche. Poi la situazione mi è sfuggita di mano e continuavo a perdere peso; non sono mai finita in ospedale per fortuna, ma i miei pensieri mi tormentavano, pensavo di non meritarmi di mangiare». Ho lasciato molto spazio alle parole di adolescenti e giovani, perché devono essere loro e non le nostre interpretazioni di adulti a raccontarci come vivono i loro disagi e quella sofferenza esistenziale che li prepara ad affrontare la vita non in maniera superficiale, ma consapevole e pensosa. Immagino che qualche adulto a questo punto si domanderà: «Che fare?». Un primo suggerimento viene da questo ragazzo che scrive: «Non giudicateci, ascoltateci. Non è colpa nostra, è il mondo che ci hanno lasciato le generazioni passate». Parole che costituiscono anche un atto di accusa a chi li ha preceduti e davanti alle quali i giovani si sentono in credito: di senso, di valori, di attenzioni. L’essere giudicati dagli adulti e il non essere capiti da loro sono tra i motivi di maggiore sofferenza. Le nuove generazioni chiedono innanzitutto ascolto, comprensione, supporto per affrontare la vita sentendo di non essere soli ma di avere accanto persone non giudicanti bensì alleate nella ricerca di un bene che è oltre tutti. Occorre smontare il mito della generazione spensierata e sdraiata e prendere coscienza del dolore dei giovani, che interpella gli adulti, non di rado responsabili di quello stesso dolore.
Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma se ai giovani oggi non manca niente! Hanno il necessario e quasi sempre anche il superfluo! Che cosa vogliono di più?». Ciò che li fa soffrire è la mancanza di qualcosa che non si compra al mercato né si trova in discoteca; è affetto, è senso, è stima, è considerazione, è serenità…, beni che sbocciano solo in relazioni autentiche e che hanno radice nella propria interiorità. Mai come in questo caso si tocca con mano la verità della parola del Vangelo: «Non di solo pane…». Il dolore nasce dalla mancanza di ciò che si ritiene necessario per vivere; il desiderio insoddisfatto lascia il posto alla paura, all’ansia, al senso di inadeguatezza. Scrive questo giovane: «Sono stanco di sentirmi vuoto e ho paura per me e per il mio futuro». Il futuro è un pensiero che assilla chi sta cercando di definire la propria identità e il proprio progetto di vita. La testimonianza di questo giovane è molto significativa al riguardo: «Costantemente penso cosa farò da grande, e a volte desidero di rimanere sempre bambino e di non crescere più. Non so se la vita che farò da grande mi piacerà».
L’ansia, la paura spesso stanno insieme a un senso di solitudine che non sempre è mancanza di amici o di relazioni significative, come nel caso di questo adolescente: «Sono circondato da molte persone eppure mi sento solo, sono amato dalla mia famiglia, eppure sento che non c’è più una famiglia». È la sofferenza del diventare grandi, del travaglio dell’adolescenza, del passaggio dal proprio essere bambini alla consapevolezza di non esserlo più e di non sapere ancora chi si è, per cui si dice, come qualcuno dei ragazzi intervistati, «mi sento perso». Ma dichiarare la propria solitudine è anche un modo implicito per dire il proprio desiderio di avere accanto un adulto credibile cui poter dire il proprio stato d’animo e cui affidarsi come a un punto di riferimento per orientarsi; un adulto che si fermi e chieda: «Perché stai così?».
La solitudine e il senso di incertezza sul futuro generano ansia e preoccupazione che spesso la scuola e la famiglia contribuiscono ad accrescere: «Sono sempre in competizione con me stessa per migliorare – dice una giovane –. Ciò che è brutto è che mi confronto con gli altri per ottenere quello che loro hanno e fanno, e mi sento inferiore». La famiglia diviene spesso complice della logica da prestazione e da competizione vissuta a scuola, come nel caso di questa adolescente: «I miei sono molto severi riguardo alla scuola; soprattutto mio padre vuole che prenda sempre voti alti e che sia la prima della classe. Io ci provo, ma resto nella media anche quando studio; il problema è che quando i miei vedono le insufficienze mi sgridano e non mi parlano più per giorni, perché si vergognano di avere una figlia così, che va male a scuola». La scuola ha molta responsabilità, secondo gli studenti, nel generare sofferenza e solitudine. Un ragazzo dice, rivolgendosi agli insegnanti: «Fate capire agli studenti che sono visti. Visti davvero». Sentire di non essere visti significa non esistere, proprio in quel contesto nel quale si trascorrono molte ore della propria giornata. È una sensazione frustrante, alla quale si aggiungono talvolta difficoltà di relazione con i compagni; le amicizie dell’adolescenza sono esigenti, selettive e hanno un sapore di decisività. Non avere amici o non sentirsi capiti dai propri amici contribuisce al senso di solitudine e di inadeguatezza che molti ragazzi e ragazze sperimentano.
Vi sono molti casi in cui queste situazioni vengono a poco a poco superate con la crescita, e tuttavia non senza lasciare segni nella storia personale di questi giovani. Vi sono non pochi casi in cui dal proprio dolore non si vede via di uscita. Si spiegano così i gesti di autolesionismo, o il ricorso alla droga, o addirittura il suicidio. Una giovane, in una recente conversazione, ha detto: «Il mio unico sogno è morire perché questa vita non fa proprio per me». Episodi fin troppo frequenti dicono che queste affermazioni non sono modi di dire, ma parole alle quali seguono decisioni. E poi vi sono i ragazzi che si fanno del male da soli, che sperimentano come un’ossessione il bisogno di farsi del male, «come se la testa ti dicesse che devi farlo per stare bene». E a proposito dei disturbi alimentari, questa adolescente scrive: «Non volevo mangiare, anzi all’inizio volevo dimagrire un po’ perché avevo qualche chilo in più rispetto alle altre mie amiche. Poi la situazione mi è sfuggita di mano e continuavo a perdere peso; non sono mai finita in ospedale per fortuna, ma i miei pensieri mi tormentavano, pensavo di non meritarmi di mangiare». Ho lasciato molto spazio alle parole di adolescenti e giovani, perché devono essere loro e non le nostre interpretazioni di adulti a raccontarci come vivono i loro disagi e quella sofferenza esistenziale che li prepara ad affrontare la vita non in maniera superficiale, ma consapevole e pensosa. Immagino che qualche adulto a questo punto si domanderà: «Che fare?». Un primo suggerimento viene da questo ragazzo che scrive: «Non giudicateci, ascoltateci. Non è colpa nostra, è il mondo che ci hanno lasciato le generazioni passate». Parole che costituiscono anche un atto di accusa a chi li ha preceduti e davanti alle quali i giovani si sentono in credito: di senso, di valori, di attenzioni. L’essere giudicati dagli adulti e il non essere capiti da loro sono tra i motivi di maggiore sofferenza. Le nuove generazioni chiedono innanzitutto ascolto, comprensione, supporto per affrontare la vita sentendo di non essere soli ma di avere accanto persone non giudicanti bensì alleate nella ricerca di un bene che è oltre tutti. Occorre smontare il mito della generazione spensierata e sdraiata e prendere coscienza del dolore dei giovani, che interpella gli adulti, non di rado responsabili di quello stesso dolore.
(7 - continua)
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