Signor direttore:
ma tra gli internati e gli infoibati oggi chi sta meglio? Lo chiedo perché io considero Liliana Segre una donna comunque molto fortunata perché da ragazzina è vero che è stata internata, ma se penso che altre giovanette come lei sono finite nelle foibe dei suoi compagni comunisti e non avranno il privilegio di festeggiare le sue ottantotto primavere, mi viene la pelle d’oca e un certo prurito. E al regista Giorgio Treves che spero conosca la storia, ma ne dubito assai, e allora gli consiglio d’approfondirla, dico: perché non ci racconta dettagliatamente gli orrori del comunista Tito?
Enzo Bernasconi
Ma che domande fa? Ma come le salta in mente? Le rispondo in modo pubblico, signor Bernasconi, soltanto per un motivo: spero che in tanti vengano scossi da questo dialogo tra lei e me.
Conosco personalmente tanti esuli giuliani, istriani e-dalmati. E da loro non ho mai sentito parole come quelle che lei ha scelto, e che a me non suscitano né prurito né pelle d’oca, ma un brivido doloroso e un moto di indignazione. Conosco personalmente anche la signora Liliana Segre, oggi senatrice a vita, e credo che se lei l’avesse ascoltata almeno una volta, o se almeno una volta avesse scorso le pagine di un suo libro, non si sarebbe neppure sognato di proferire giudizi come quelli che ha osato mettere per iscritto. Sono, però, altrettanto convinto che se lei non avesse mai ascoltato o letto la signora Segre, ma avesse una pur minima conoscenza della tragedia dei lager dove nel nome della razza e di Hitler vennero massacrati milioni di ebrei, centinaia di migliaia di "zingari" e decine di migliaia di "diversi" (disabili, oppositori politici di ogni colore, omosessuali…), mai si sarebbe permesso di comparare in modo così aspro e risentito la terribile sorte degli infoibati dai comunisti titini con la sofferenza e la testimonianza di coloro che ai campi di sterminio nazisti riuscirono a scampare, ma in più di un caso solo dopo aver visto uccise tutte le persone care. E mai, insisto, lei si sarebbe permesso di dire qualcosa di così superficiale e ingiusto sulla lunga vita coraggiosa di una sopravvissuta alla Shoah come Liliana Segre. Una vita spesa bene e che, dopo l’incubo assassino dei campi di sterminio nazisti, è stata ed è benedetta non dalla «fortuna», ma dall’amore e dalla passione per la verità.
Vede, signor Bernasconi, in questi tre ultimi anni ho dovuto scrivere e titolare più volte, sempre con fatica, su una crescente mancanza di vergogna nell’usare parole dure, specchio di calcoli e di pensieri cattivi. Che si cerca di giustificare, a volte, con qualche argomentazione ideologica, come quella contro i "comunisti", categoria nella quale vengono iscritti d’ufficio tutti coloro che non si allineano alle parole d’ordine di destre sempre più illiberali, e che è speculare e opposta a quella degli "oscurantisti" nella quale si viene inscatolati se non si acconsente alle parole d’ordine di sinistre sempre meno proletarie e sempre più arrese all’individualismo egoista. Di queste tenaglie ideologiche non mi importerebbe granché, ma constato che fanno danni sempre più estesi e profondi. Non avrei mai voluto vedere un tempo in cui miei concittadini avrebbero ritenuto di ostentare il proprio scandalo contro un docufilm come quello di Giorgio Treves, che ottant’anni dopo rende conto delle vergognose leggi fasciste sulla razza, per offrire memoria a chi l’ha perduta o ai più giovani ai quali non è stata trasmessa. Per me è quasi incredibile. Di fronte a quel misfatto non c’è nessuna "par condicio" storica da poter invocare: le verità dei fatti non si legittimano perché si bilanciano tra di loro, ma per la propria oggettiva forza ed evidenza. Lo dico con la stessa chiarezza usata dal giornale che oggi io dirigo per scrivere e documentare le stragi delle foibe. "Avvenire" l’ha fatto, come nessun altro grande giornale italiano, con dolente e appassionata continuità e sin da anni in cui si finiva per essere davvero soli e insultati per la scelta di indagare quei fatti e onorare quelle vittime.
Che oggi ci si avventuri in una polemica come la sua, fa però capire fino a che punto, per troppi, è arrivata la notte della smemoratezza. Un buio accecante: non si ricorda o si ricorda selettivamente (stalinismo e non nazifascismo, o viceversa) e si cerca di relativizzare il male atroce che ha divorato il cuore del Novecento e milioni di vite umane innocenti, uomini e donne e bambini colpevoli solo di essere vivi, e di essere parte di "gruppi" umani o politici che qualcuno – in nome di una visione disumana che si era fatta legge – aveva dichiarato sbagliato e indegno. È così che rinascono i mostri. «Mai più», ho imparato a dire da bambino. Lei mi conferma che oggi dobbiamo ripeterlo con ancora più acuta consapevolezza.