L’ora del negoziato è sempre matura: il dialogo basta al dialogo, come l’amore
sabato 3 dicembre 2022

Stavolta arriva da Canterbury una riflessione semplice e profonda sulla potenza e sulle molteplici possibilità generate dall’uso finalmente disarmato (e nonviolento) delle proprie ragioni. In questo duro inverno e sulla strada di Natale, altri buoni argomenti per stare accanto a tutte le vittime della guerra e aggrappati alla speranza

Caro direttore,

ho letto la sua risposta a tre lettori sulla la resistenza nonviolenta («La resistenza nonviolenta è utopia? Solo se non la radichiamo nella vita», Clicca qui per leggere) e mi ha fatto pensare a due cose su cui rifletto da parecchio tempo, anche perché sono un punto importante nella mia tesi di dottorato, e credo siano anche alla base di quelle che poi, ahimè, diventano sanguinose guerre.
La prima è che tutti noi tendiamo troppo a ragionare secondo la dicotomia “amico-nemico” che equivale a quella “buono-cattivo”. Cioè ci illudiamo che sulla Terra gli uomini si possano dividere in maniera netta in buoni e cattivi, dove ovviamente noi, e quelli vicini a noi, saremo sempre i buoni, detentori della Verità e della Giustizia, mentre gli altri sono sempre i cattivi da punire. Il secondo punto su cui rifletto parecchio riguarda i negoziati. Negli ultimi mesi, sempre in relazione alla guerra in Ucraina, si è parlato e si parla moltissimo di negoziati e l'idea principale che passa è che i negoziati sono inutili, che si negozia solo quando il nemico – in questo caso la Russia – lascia il territorio invaso e ancora che l'unico accordo che si può avere con la Russia è che il territorio ucraino venga diviso.
Io non mi trovo d'accordo con questi punti di vista, che secondo me non colgono le molteplici possibilità – anche la potenza, se vogliamo – del dialogo. Intanto credo che non ci sia un momento giusto per dialogare (nella letteratura sulla risoluzione di conflitti viene chiamato «ripe moment», come lo definì il professor William Zartman); il dialogo, secondo me, deve essere continuo, indipendente dalle condizioni circostanti. In secondo luogo, se, certo, approccio un negoziato già pensando che con l'altro il dialogo non è possibile e/o che l'unica soluzione sia la divisione del territorio, sarà sicuramente così e non ci sarà nessun'altra possibilità.
Credo invece che approcciare un dialogo a mente aperta, cercando di capire quali siano veramente i problemi alla base (non credo infatti che l'invasione di un territorio sia il semplice volere allargare i confini o rafforzarli. Piuttosto credo sia l'esplicitazione di qualcos'altro, qualche altro bisogno, forse addirittura ignoto all'invasore stesso), porterà all'apertura di possibilità diverse e forse molte, che magari prima neanche immaginavamo.
Giulia Grillo, University of Kent, Canterbury (Gran Bretagna)


Gentile e cara dottoressa Grillo, che bello leggere la sua riflessione. E sono contento che qualche mia e nostra parola l’abbia spinta a condividerla con noi tutti. È come una boccata d’aria primaverile nell’inverno del nostro scontento, che ci ha gelidamente e bellicosamente afferrato nel febbraio scorso e non ha più finito di stringerci i pensieri e il cuore. Viviamo in un tempo popolato di pretesi costruttori di mondi e di ordini mondiali, di compilatori di cataloghi dei diritti propri e dei doveri altrui, di mercanti di armi e di spacciatori di universi paralleli che bombardano e divorano la vita della gente reale.
Potenti, ma che hanno perso la speranza, o la confondono (che si chiamino Vladimir o Volodymyir o abbiano nomi d’Occidente e d’estremo Oriente) con la propria arroganza, e che lavorano per sminuire e sminuzzare la nostra speranza, e pretendono di ridicolizzarla, ridicolizzando la volontà e la capacità di pensare con altre pacifiche categorie e di lavorare per fare diversa e fraterna la relazione con gli altri, con il creato e con la storia di cui siamo padri e madri e figli. (Oggi sulla prima pagina di “Avvenire” ne ragiona, da par suo, Franco La Cecla, indicando vie di resistenza e di ricominciamento).
La ringrazio, perciò, con speciale entusiasmo per la sua chiarezza. Lei dice, con semplicità, una verità profonda: la vera forza del dialogo è che può darsi anche quando non ne vediamo le ragioni. Ma non le vediamo, queste ragioni, perché – ammettiamolo – noi esseri umani tendiamo, soprattutto in questa stagione politica e culturale, a mettere a fuoco, anzi ad armare di ferro e di fuoco, soprattutto i motivi per darcele di santa ragione gli uni gli altri, consegnati a quell’antico rito crudele che è la guerra, in vari modi organizzato e smerciato nel gran bazar del mondo malamente globalizzato.
E, invece, se si decide di disarmare le proprie ragioni e ambizioni, cambia tutto. Perché il dialogo basta al dialogo, proprio come l’amore. Noi cristiani, ma non solo noi ormai, questa consapevolezza dovremmo averla cara e chiara. Cristo è Logos, Parola creatrice, e sin dal principio Dia-Logos, Parola tra di noi. (Ma vallo a dire a quelli che, a Est come a Ovest, ma anche a Nord e a Sud del nostro mondo, ripetono come un mantra che Lui è «venuto a portare la spada», e pensano alla spada che uccide, non alla linea affilata che divide l’accettazione del Vangelo e la sequela del «principe della pace» dall’ascolto egoista e orgoglioso di sé stessi e dalla violenza).
È importante, cara amica, che ci abbia spinto, lei, a ricordare e ripensare tutto questo proprio mentre – dopo troppi morti e sofferenze – anche sul drammatico fronte della guerra russo-ucraina accenna ad aprirsi qualche spiraglio di dialogo. Negoziare serve a intendersi, anche se lo spiraglio e stretto e faticoso come una ferita, sparare serve solo a tentare la sopraffazione. Ma siamo per strada, verso Natale. E stiamo in tanti, accanto a chi soffre e aggrappati alla speranza, alla «bambina da nulla», cantata da Charles Peguy, che in quel giorno preciso «è venuta al mondo» per «traversare mondi compiuti» e anche città distrutte. È questa piccola e tenace speranza che ci aiuta a credere e a volere che una pace fatta giusta dal dialogo e dalla responsabilità di ognuno possa cominciare se appena – come dice papa Francesco e come pensa la gente comune – si saprà fermare la sempre ingiusta guerra. Ha ragione lei: ogni momento è buono, un «ripe moment», un benedetto attimo maturo.

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