
Sfollati in Ucraina dopo un raid russo - Ansa
Il conflitto esiste in natura. È parte integrante delle dinamiche fisiche, chimiche e biologiche che regolano il mondo. Le forze si incontrano e si scontrano, generando quell’energia che dà forma e movimento alla vita. Anche l’esistenza umana, fin dalla sua dimensione più fisica, è attraversata da conflitti e vive attraverso di essi: dentro di noi, nei rapporti interpersonali, nelle società. Da questa infinita gamma di incontri e scontri, di attriti minimi o consistenti, nascono le relazioni, legami, costruzioni condivise, habitat dove si genera e rigenera la fiducia, fondamento per ogni possibilità di convivenza. Queste costruzioni, le ritroviamo a ogni livello: dalla vita psichica a quella sociale, e da lì a quella culturale, economica e politica.
Tuttavia, ciò che distingue radicalmente l’essere umano dal resto della natura è l’emergere di una risposta inedita al conflitto: il dialogo. Se il conflitto è un dato naturale, il dialogo è un processo culturale. La relazione umana si evolve quando riesce a trasformare il conflitto in energia positiva grazie a questo strumento straordinariamente umano. Senza dialogo i conflitti degenerano, tornano alla loro forma originaria, imponendosi la logica implacabile della natura: prevale il più forte, soccombe il più debole.
Il dialogo, dunque, è l’antidoto alla legge del più forte. È ciò che consente lo sviluppo pieno dell’umanità, intesa sia come realizzazione della persona sia come evoluzione del genere umano. Col tempo, il dialogo si è istituzionalizzato, si è fatto regola sociale, diventando quel “terzo elemento” che bilancia le forze in campo. È ciò che impedisce la regressione verso una società dominata esclusivamente da istinti primordiali.
Per questo dovremmo preoccuparci ogni volta che il dialogo viene indebolito, deriso, svuotato di significato, ridotto a esercizio vuoto, o addirittura criminalizzato. Si sta affermando una pseudo-cultura regressiva che esalta la forza naturale a discapito di quella culturale. Come se l’impulso, l’aggressività, la sopraffazione fossero segni di autenticità, mentre la riflessione, la mediazione, la parola fossero indizi di debolezza o, peggio, di ipocrisia. Così, il dialogo viene relegato al ruolo di orpello, mentre prende piede un linguaggio pubblico sempre più violento, divisivo, osceno. Ne è esempio il discredito continuamente gettato sulle istituzioni internazionali, o la crescente marginalizzazione della diplomazia internazionale, derubricata a teatro inutile, mentre il conflitto armato non viene più neanche giustificato come “male necessario” o “reazione naturale con effetti collaterali”, ma addirittura esaltato come via salvifica dove l’umanità può assurgere all’eroismo.
Ma le istituzioni – quei soggetti terzi che la storia ha costruito per garantire la giustizia, la solidarietà, la convivenza – nascono e si fissano proprio come spazi di dialogo. Servono a proteggere l’umanità nei suoi momenti di maggiore fragilità: quando è povera, vulnerabile. Spezzare questi luoghi terzi della mediazione equivale a mettere in discussione le condizioni minime della vita civile. Certo, il dialogo non può essere una scorciatoia retorica. Se non è ancorato alla realtà del conflitto, rischia di diventare parola vuota, esercizio verbale disconnesso dai problemi concreti. Forse, una riflessione collettiva ci aiuterebbe a riconoscere le occasioni in cui abbiamo ridotto il dialogo a pura forma, ignorando o rimuovendo le tensioni sottostanti.
Eppure, per la sopravvivenza stessa della famiglia umana su questo pianeta, ridare forza al dialogo – a tutti i livelli: interpersonale, sociale, internazionale – è oggi ineludibile. E possiamo agire. L’obiezione di coscienza può iniziare da qui: non condividere nulla di ciò che svilisce e vanifica il dialogo, non sostenere chi lo dileggia e lo rinnega, magari con un semplice sorriso di sufficienza, non irridere le istituzioni, soprattutto quelle internazionali. In caso contrario, il destino dell’umanità potrebbe davvero somigliare a quello immaginato da Giacomo Leopardi, al termine di una delle Operette morali. Lì, un folletto conversa con uno gnomo, in un mondo ormai disabitato dall’uomo: «“E dove sono gli uomini?”. “Non ne rimane alcuno”. “E perché?”. “Perché, combattendo sempre tra loro, si sono distrutti a vicenda”. “E non si potevano accordare?”. “Avevano inventato il dialogo, ma lo disprezzarono. Preferirono la forza. E così finì l’umanità”». Non lasciamo che questa profezia si avveri. Oggi più che mai, è tempo di scegliere: forza umana o disumana, dominio o dialogo.