venerdì 3 luglio 2015
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La giustizia, in principio, fu una virtù. Una virtù cardinale fra le quattro, anzi la sintesi delle altre, il loro equilibrio armonico; e dunque il cardine dei cardini. Qualcosa di bello e umanamente perfetto, secondo Platone, qualcosa di divino secondo Agostino. Noi la cerchiamo nelle leggi, com’è naturale, perché le leggi si fanno apposta per dire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. E tuttavia si danno leggi talvolta che giuste non sono del tutto, o di dubbiosa lettura. Altrettanto cerchiamo giustizia nelle sentenze, che dicono qual è la volontà della legge, a rimedio delle nostre incertezze. E tuttavia si danno sentenze talvolta che giuste non sono, perché non basta il sol fatto che siano pronunciate da un giudice «in nome del popolo italiano» per farne degli oracoli, tant’è che ci sono diversi gradi di giudizio, e appello e cassazione, e conferme e riforme, e massime in contrasto nelle stessa settimana, e sezioni unite e riassestamenti. E qualcuno dice che è giusto così, e non c’è rimedio, anzi è il bello del "diritto vivente".Adesso è il turno di capire che cos’è il diritto vivente per la legge Severino, dentro gli intoppi di un pasticcio procedurale e sostanziale che pare un labirinto. In vigore dal gennaio 2013, votata da tutti o quasi tutti, la legge aveva in mente di ripulire il mondo delle cariche pubbliche elettive dalla corruzione e dal malaffare, rendendo incandidabili i soggetti condannati in via definitiva per certi reati e con certe pene, e sospendendo dalle cariche locali i condannati anche solo in primo grado.La prima vittima illustre della incandidabilità fra i parlamentari fu Berlusconi, cacciato dal senato per la condanna a 4 anni per frode fiscale. A livello locale, la sospensione colpì (fra molti altri di cui non s’è fatto chiasso) il sindaco di Napoli, De Magistris, con il colpo di scena del Tar che bloccò la sospensione rimettendo alla Corte costituzionale il problema spinoso della retroattività della legge. Ora si registra per De Luca, eletto governatore della regione Campania in costanza di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, il colpo doppio della sospensione disposta dal governo e l’immediato blocco della sospensione deciso dal Tribunale civile di Napoli. Senza malizia, non è difficile immaginare quanto il blocco fosse negli auspici del sospenditore, e nei pronostici giurisprudenziali.Ma il tribunale ci ha messo ancora del suo, tagliando corto sugli infiniti dubbi giuridici sul da farsi per un candidato che la legge non esclude dall’elezione, ma destina alla sospensione se eletto, e dicendo che il popolo ha voluto così: le elezioni regionali non si possono buttare a mare, la volontà popolare non si può vanificare, la sospensione «abnorme» ha conseguenze sovversive per una democrazia rappresentativa.Abnorme significa fuori norma, fuori misura, fuori criterio. Fuori legge, insomma. E se la frase «sono sospesi di diritto» è contenuta in una norma (l’art. 8 della legge Severino) ripiombiamo in un groviglio pirandelliano. A tagliarlo, ora, un tribunale addita il popolo votante, quasi nuovo principio orientatore in seno alle fonti del diritto: "quod populo placuit". E forse, coi nostri chiari di luna, c’è anche del buon senso, alla disperata, è sempre meglio che "quod principi placuit"; ma la sovranità popolare nelle democrazie evolute si esercita esattamente mediante la formazione delle norme di legge nel Parlamento e non nelle urne.Se è una legge di dubbia applicazione retroattiva lo dirà la Consulta il prossimo ottobre. Se è una legge da ritoccare dopo il rodaggio, sarà il legislatore a dover colmare i vuoti e le incoerenze, senza supplenze giudiziarie. Con chiarezza preventiva, per favore; con poche parole chiare. La giustizia non è un virtuosismo, in perenne slalom fra leggi e decreti e sentenze e ordinanze, pareri, opinioni, astuzie. È una virtù.
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