mercoledì 21 agosto 2013
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È una fotografia pubblicata da un quotidiano, non perfettamente a fuoco, forse scattata con un cellulare. Ritrae l’istante in cui la madre Ana riabbraccia  uno dei suoi due gemelli di sei anni, ritrovato a Roma insieme al fratello dopo nove ore di angoscia. Nell’immagine naturalmente la faccia del bambino è resa irriconoscibile; e di quella della madre si vede solo una metà, la guancia e un occhio, di profilo. Occhi che nell’attimo del primo ritrovarsi sono chiusi, come di chi esca da un incubo, e cerchi di cancellarne le immagini e i pensieri. Un brutto sogno, è stato solo un bruttissimo sogno, sembra raccontare il viso della madre nell’attimo catturato dall’obiettivo. Immagine che vale più di ogni parola, e in cui chiunque si può immedesimare: è l’istante del sollievo infinito, quando si è temuto di perdere ciò che ci è più caro, e invece quell’amore, sano e salvo, è tornato. Si resta a guardarla, quella fotografia. Qualcosa nell’immagine colpisce, e tocca corde profonde. E forse, pensi, avrebbe meritato la prima pagina, l’attimo dell’abbraccio dei due gemelli spariti in un quartiere popolare e dopo un’interminabile giornata ritrovati. Però quel titolo che ieri pomeriggio apriva i siti dei quotidiani on line, già è decaduto, la mattina dopo il ritrovamento, fra gli ultimi, e compare in basso, in piccoli caratteri, nelle prime pagine. Certo, legge del giornalismo è che notizia sia l’imprevisto funesto, il male, il sangue; e se due bambini di sei anni dopo una giornata in cui un intero quartiere li ha cercati tornano a casa, la vicenda, giornalisticamente, si "sgonfia". Eppure, è folgorante lo scatto che coglie la madre a occhi chiusi, nella beatitudine di stringere di nuovo i figli addosso, di annusarne, come fanno le madri, l’odore dei capelli, di sentire con le dita la morbidezza delle guance. Chiunque abbia un bambino e abbia provato anche solo per mezz’ora a non trovarlo, a non sentirlo rispondere quando lo si chiama nel cortile di casa, sa. Sa l’onda del panico che sale e stringe la gola, e il cuore che nel petto scoppia, mentre di colpo tutto il resto, ogni problema quotidiano, ogni altra cosa sembra un nulla, un ridicolo niente, a fronte del silenzio di un bambino che non si trova. Mentre nella memoria si affollano come fantasmi sinistri certi titoli di giornale, certi nomi di figli scomparsi e, davvero, mai più tornati. È lancinante l’ansia di quegli istanti, tanto che anche a chi non crede può capitare di pregare: di supplicare un Dio ignoto, perché quel figlio ritorni. E quando poi davvero è stato solo un incubo, che come a Roma si scioglie dopo una giornata di paura, chi ha provato sa la gioia, e la smisurata gratitudine, nell’abbracciare un figlio smarrito, e ritrovato. E allora, pensi, la foto scattata in una caserma dei carabinieri avrebbe forse meritato una maggiore evidenza sulle pagine dei giornali. Perché in tempi in cui le cattive notizie sono troppe, una notizia buona irrompe fra le righe come una boccata d’aria fresca in una stanza chiusa. Perché nel mondo di incertezza e angoscia in cui viviamo è importante l’attimo in cui un brutto sogno si smaterializza e si scioglie. E una madre e un padre riaprono gli occhi e guardano due figli, in una gratitudine che non hanno mai provato. E nove ore di ricerca, e le luci lampeggianti delle auto dei carabinieri, e la folla attonita e muta intorno, tutto è svanito. Soltanto un incubo, è stato. Ma vera invece la gioia, e fra le braccia la tenera carne di quei figli ritrovati.
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