martedì 2 marzo 2010
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Trema anche il mio cuore con il Cile che il terremoto sconvolge fin nel profondo ma che tiene alto lo sguardo e stringe i denti di pianto e resistenza. Trema a ogni terribile scossa: e sono ormai più di duecento i morsi e gli scuotimenti del mostro che ha addentato con ferocia la Regione del Maule e ha stritolato Concepción e metà Paese, maciullando vite e case e cose, mortificando grandi opere costruite con fatica e ingegno.Trema di dolore, di umanissima paura e di orgoglio, vedendo che il sisma immane digrigna ancora e invano davanti a una selva di edifici alzati, negli anni, per reggerne l’urto. Trema come il cuore dei cileni che nascono e crescono nella consapevolezza di essere uomini e donne in «condizione tellurica», tenaci cittadini di quel «malfermo, sottile balcone di pietra e roccia» appeso tra le Ande e il Pacifico che Roberto Ampuero ha tratteggiato da par suo su "Repubblica" di domenica scorsa.Conosco bene il Cile. Conosco la sua gente amabile, la sua natura splendida e i suoi spigolosi sussulti di terra. Lo conosco come conosco mia moglie che anche del Cile è figlia. E lo amo di un amore vero, il più simile a quello che ho per il mio Paese. Quest’Italia che sta appesa tra le Alpi e il Mediterraneo, ponte malfermo e sottile, gemmato di noncurante bellezza, tra l’Europa e l’Africa. E so, come dovremmo sapere tutti, che anche noi viviamo in «condizione tellurica», che anche noi siamo affacciati a un parapetto affascinante e rischioso.Non c’è, come all’altro capo del mondo, la Placca di Nacza a incalzare noi italiani, ma c’è la Placca Africana. Non c’è una straordinaria e ruggente catena di vulcani andini, ma ci sono la ciclica ira dell’Etna e dello Stromboli, il sonno nervoso di Vulcano e il silenzio ogni giorno più minaccioso del Vesuvio. E se non c’è neanche la certezza dei cileni di dover sperimentare «almeno due volte» nella propria vita terremoti devastanti, ci sono o ci dovrebbero essere la memoria e le cicatrici di scrolloni forse meno rabbiosi ma comunque distruttivi e assassini. Nella mia vita di italiano, ancora colpito dalla tragedia d’Abruzzo, mi sono toccati sinora anche i terremoti del Belice, del Friuli, dell’Irpinia e dell’Umbria (ben tre volte e le ho "vissute" tutte, visto che è la mia regione d’origine).Non pensate a un parallelismo impossibile. O un po’ sentimentale. Non è così. Tutto è diverso e niente lo è del tutto sulla faccia della terra. E ciò che scuote i continenti e i giorni della famiglia umana, anche se avviene lontano, deve svegliarci. Deve tornare a scolpirci nella mente una semplice verità: per vivere e costruire qualcosa che duri e abitare nei luoghi che amiamo, dobbiamo conoscerli davvero e rispettarli e interpretarli con lucidità e saggezza.Noi italiani, dopo il sisma del 1980, abbiamo imparato a rimediare con efficienza ai grandi guasti: ci siamo decisi a fare protezione civile, sul serio. Fino a diventare bravi, generosamente ed esemplarmente bravi nel gestire le emergenze (e nessuno scandalo vero o presunto, può sminuire o addirittura negare questa realtà). I cileni, inseguiti come i giapponesi e i californiani dai mostri implacabili che sconvolgono il loro immenso mare comune e Pacifico solo di nome, hanno invece imparato a costruire bene. E hanno dimostrato, persino nell’attuale terrificante prova, che quest’arte è il cuore possibile di una vera politica di prevenzione dei disastri. Tanto da far sembrare pochi, a fronte della potenza dell’evento tellurico, centinaia e centinaia di morti e due milioni di sfollati. Pochi non sono, e il dolore e l’angoscia e il danno sono enormi, ma avrebbero potuto essere decine di migliaia le vittime, avrebbero potuto essere tre volte di più i senzatetto. E questo vale immensamente. Questo dice, ci dice, qualcosa che va capito e davvero fatto. L’altra metà della lezione che apprendemmo definitivamente nel 1980: costruire bene.I cileni ricominceranno a farlo, dolenti e tenaci. Si rimboccheranno le maniche e il mondo – e l’Italia col mondo – dovrà saper essere al loro fianco. Le case e le strade dell’uomo riprenderanno forma, ancora e meglio. A sfidare il mostro, che certo tornerà. E sempre di più dovrà digrignare invano.
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