mercoledì 3 ottobre 2012
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È vero, come si sente spesso ripetere, che "non possiamo fare a meno dei Cie", i centri di identificazione ed espulsione in cui vengono condotti gli immigrati irregolari in attesa di identificazione. È altrettanto vero che i Cie potrebbero essere usati diversamente. Non possiamo farne a meno anzitutto perché ce lo impongono le normative europee. Da ultimo la direttiva 115 del 2008, che impegna gli Stati membri all’effettivo rimpatrio degli stranieri irregolari e prevede che, a tal fine, gli Stati possano «trattenere» le persone da espellere per «prepararne il rimpatrio».Che cosa significa «preparare il rimpatrio» di una persona irregolare? Significa che se uno Stato deve espellere, con le complesse procedure previste dalla legge, uno straniero irregolare di cui (non essendovi documenti) non si conoscono l’identità anagrafica e la provenienza nazionale, deve in primo luogo accertare in quale Paese inviare il cittadino straniero. Pena, il rischio di inviare nel Paese X una persona proveniente dal Paese Y. E dunque bisogna stabilirne perlomeno la nazionalità (con la collaborazione dei consolati e con un percorso non breve). Inoltre, bisogna trovare i mezzi di trasporto per l’accompagnamento nella patria di origine. Tutto ciò richiede tempo, nel corso del quale la persona da espellere viene, appunto, «trattenuta al Cie». Apparentemente tutto semplice e chiaro. Ma, come spesso accade, la realtà è più complessa delle regole astratte.In primo luogo non è semplice fare accettare a uno straniero che non ha commesso alcun reato se non quello di "clandestinità", il fatto che lo si priva della libertà personale per un periodo che, proprio a seguito della direttiva Ue 115/2008, può oggi raggiungere i diciotto mesi (possibilità che le questure tendono a non utilizzare). In secondo luogo i Cie non hanno alcune strutture (biblioteche, laboratori, palestre, ecc.) di cui dispongono le carceri. Per certi aspetti, quindi, la "detenzione amministrativa" in un Cie può risultare più afflittiva della detenzione in carcere. Ne sono conseguenza le rivolte e i frequenti atti di autolesionismo. Inoltre le collaborazioni dei consolati lasciano spesso a desiderare. Soprattutto, l’estensione enorme del fenomeno dell’immigrazione irregolare fa sì che qualunque strumento predisposto per eseguire le espulsioni risulta alla fine inadeguato. Questo giornale lo scrive da tempo: l’area della cosiddetta "clandestinità" è "drogata". Si è estesa a macchia d’olio in conseguenza del fatto che lo straniero che chiede di venire in Italia per cercare lavoro deve affrontare procedure troppo lente e farraginose, che spingono all’irregolarità anche chi non vorrebbe essere irregolare (e magari ha già trovato un’occupazione e un datore di lavoro che lo vorrebbe regolarizzare). Se non riusciamo a regolarizzare i cittadini stranieri che il nostro "mercato del lavoro" richiede, se li facciamo lavorare in nero e non rendiamo regolare la loro presenza in Italia, se poi li marchiamo con l’etichetta di "clandestini" e tendiamo ad espellerli, mettiamo in moto un meccanismo costosissimo e imbelle. Le nostre prefetture emetteranno decine di migliaia di decreti di espulsione, destinati spesso a non essere eseguiti: spauracchio di onesti lavoratori irregolari e acqua fresca per coloro che davvero meriterebbero d’essere rimandati al Paese di origine.L’unico modo per contrastare la "clandestinità" è avere procedure di ingresso semplici, snelle e veloci. A quel punto ci si potrà concentrare, in modo selettivo, sull’espulsione effettiva (non solo proclamata sulla carta) degli irregolari che hanno commesso reati gravi. Perché il paradosso dell’attuale situazione è proprio questo: è più facile espellere una badante irregolare piuttosto che un rapinatore o uno spacciatore che, non dichiarando mai le loro vere generalità, riescono a sfruttare le lentezze della nostra macchina amministrativa e a rimanere in Italia.
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