«Hic sunt apri» poche idee e a Roma corrono i cinghiali
venerdì 3 settembre 2021

La capitale inselvatichita, la battaglia amministrativa, le attese della gente C’è stato un tempo in cui i territori di Roma erano talmente vasti da terminare a ridosso di spazi ancora inesplorati. Hic sunt leones, si trova scritto su antiche mappe per descrivere quelle (allora) misteriose lande non romane: 'Qui ci sono i leoni'. Per carità, nessuna nostalgia dei fasti imperiali, se non in qualche colorita esternazione di uno dei quattro principali candidati sindaci, Enrico Michetti del centrodestra. Ma, appunto, a Roma tra appena un mese si voterà per scegliere chi amministrerà la città nei prossimi cinque anni e... hic sunt apri.

Qui ci sono i cinghiali. Dentro, non fuori dai confini. Nei quartieri periferici come in quelli centrali. Attirati, ovviamente, dai facili pasti offerti gratuitamente da strade sporche, cassonetti traboccanti e verde urbano incolto, in alcuni casi assai simile alle selve di norma frequentate da questi simpatici e irsuti mammiferi. Così sui cinghiali dobbiamo assistere a un derby Roma-Lazio, nel senso di Comune contro Regione, con la giunta Raggi che denuncia la giunta Zingaretti perché è sua la competenza «sulla fauna selvatica» (in realtà sempre più domestica) e quest’ultima a ribattere che spetta alla sindaca il controllo degli animali «nelle aree non ricadenti nella superficie agro-silvopastorale ».

Insomma, quanto di meno appassionante si possa propinare alla cittadinanza un po’ depressa di una grande Capitale malridotta. Fatto sta che in questo caso non si può nemmeno invitare i contendenti a 'parlare dei veri problemi della città', perché i cinghiali (per altro avvistati, più sporadicamente, anche in altre città italiane) sono, incredibilmente, uno dei tanti, veri problemi di Roma. Così come i gabbiani, una volta confinati sul mare di fronte a Ostia o svolazzanti sull’ormai dismessa discarica di Malagrotta, oggi padroni di piazze e strade, divoratori/sparpagliatori di immondizia e predatori implacabili di piccioni e ratti. Altro che fasti imperiali. Certo, in campagna elettorale, uno si aspetta delle visioni di lungo termine, idee – possibilmente alternative tra loro – per la città del domani, prospettive e, perché no?, speranze.

Non che non ci provino, i candidati sindaco. Virginia Raggi, prima cittadina uscente e aspirante rientrante, sta in questi mesi asfaltando tutto l’asfaltabile e cercando di convincere i romani che il primo giro era di rodaggio ma poi, con lei ancora al volante, si correrà. Roberto Gualtieri ce la mette tutta: gira, vede gente e fa cose come l’interlocutrice di Nanni Moretti in Ecce Bombo. Carlo Calenda, il primo a scendere in pista, non si stanca di illustrare il suo programma dettagliato fino quasi alla pignoleria. Mentre Enrico Michetti presenta le sue proposte puntando sulla spontaneità e sull’immediatezza.

Il guaio è il contesto in cui la campagna si svolge. A parlare di una Roma splendente tra uno, due o cinque anni si teme, giustamente, di scivolare nel surrealismo. L’impressione è che i cittadini, di centro, di sinistra e di destra, abbiano ormai accantonato qualsiasi mania di grandezza e si accontenterebbero di vivere in una città 'normale': una metropolitana funzionante, autobus che non prendano fuoco in corsa, parchi e aiuole curati, raccolta e trattamento dei rifiuti almeno decenti, politiche sociali più attente ai bisogni di famiglie, poveri e senza-casa. A un romano di oggi, già questo elenco sembra il libro dei sogni. E il sindaco che riuscisse a realizzarlo rischierebbe di essere incoronato imperatore.

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