venerdì 18 novembre 2011
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Se proprio non piace la parola "austerità" che richiama alla memoria sia gli anni lontani dello choc petrolifero sia quelli dell’inflazione a due cifre, sarà bene che riusciamo a trovare le parole giuste per vivere i nostri giorni. Forse le uniche davvero convincenti sono "sobrietà" e "gratuità". La sobrietà contraddistingue la persona moderata, che si contiene entro i limiti della necessità e della sufficienza, che rifugge dagli eccessi di ogni tipo, che vive e si nutre dell’essenziale. Obietterete: dopo anni di eccessi sbandierati come stili di vita vincenti, dopo i fuochi d’artificio, dopo il multicolore ci venite a raccontare che occorre tornare al grigio, se non al bianco e nero? Non siamo così ingenui da pensare che il mondo sviluppato possa abbandonare da un giorno all’altro il suo stile di vita consumistico, ma certamente ogni persona e ogni famiglia sapranno costruire una scala di priorità, con inevitabili limitazioni dettate dal reddito e dal patrimonio. È facile, però, immaginare che molte cose cambieranno. Gli stili di vita, come più volte è stato evocato con approccio educativo dal cardinale Angelo Bagnasco, dovranno in futuro dare spazio all’essenziale. Un nuovo equilibrio è destinato a imporsi fra i beni di necessità e il superfluo, di cui sono piene le nostre vite. Ma l’impatto della sobrietà dovrà essere ancor più incisivo nella sfera pubblica. A partire dalla consapevolezza di dover tagliare – se non ora quando? – il peggiore dei meccanismi della nostra politica, ovvero la costruzione del consenso elettorale attraverso la spesa pubblica. C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, nel quale noi tutti abbiamo tuonato contro il cosiddetto "voto di scambio". Peccato che ci siamo concentrati solo sul singolo parlamentare e amministratore e non sul sistema. Abbiamo guardato nel nostro piccolo giardino e abbiamo tralasciato ciò che accadeva nella foresta, dove intere classi dirigenti, della Prima come della Seconda Repubblica, promettevano crescita infinita e distribuivano prebende generose a lobby e gruppi di interesse facendo ricorso spregiudicatamente a risorse pubbliche. Da qui il vero impazzimento di tanti, troppi, dinanzi al brutto risveglio di questi mesi e giorni: la necessità di favorire la crescita senza gravare sul debito. È proprio in questa congiuntura sfavorevole che emerge il bisogno di gratuità. Profetiche le parole di Benedetto XVI che nella Caritas in veritate si spinge ad affermare che «anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica». Una possibilità che tocca a tutti i protagonisti del mercato, dello Stato e della società civile. C’è la necessità che ciascuno cominci a donare qualcosa. Un’ora di lavoro in più a parità di salario per salvare l’impresa? E cos’è l’allungamento dell’età pensionabile, se non un processo contemporaneo di accumulazione di risparmio pubblico a fronte di una quota superiore di lavoro individuale? È una macro risposta, ma la micro risposta che fa massa critica forse sta altrove. A cominciare dal Welfare comunitario. È lì, in quella vasta area dei servizi alla persona, che si può fare la differenza. Nel prendersi carico delle attività di cura, in un tempo nel quale si allunga l’aspettativa di vita, sta la possibilità di alleggerire davvero i conti dello Stato e di beneficiarne tutti. A condizione, però, che le classi politiche non dissipino i nostri risparmi. Ecco lo spazio nel quale una società matura può immettere alti tassi di gratuità. Aspettare che lo faccia lo Stato, per decreto, è un’illusione. Tocca alla società civile rimettere in moto il meccanismo della gratuità che ben si sposa con la sobrietà. Attenderci una svolta immediata dalle classi dirigenti è difficile, ma non impossibile. Realizzarla facendo leva sulle nostre forze è oggettivamente meglio. Anche per restituire qualità alla nostra democrazia partecipativa.
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