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Migliaia di studenti in piazza a Belgrado - ANSA
In Serbia soffia forte il vento del cambiamento ma Bruxelles stenta a prendere posizione sulle gigantesche proteste di piazza che da mesi stanno facendo traballare il regime di Aleksandar Vucic. Eppure, le istanze di quella che è stata definita la “primavera serba” dovrebbero essere del tutto condivisibili dall’Unione Europea: giustizia, democrazia e fine della corruzione in un sistema dai chiari tratti autocratici, sul quale le Ong per i diritti umani e gli organismi di monitoraggio della libertà di espressione lanciano da tempo forti segnali d’allarme.
Ancora ieri si sono rinnovate le vibrate proteste degli studenti che, a centinaia, hanno bloccato l’edificio della tv pubblica a Belgrado e Novi Sad per protestare contro quella che definiscono informazione di regime diffusa dall’emittente dove, martedì sera, Vucic ha parlato al notiziario di massimo ascolto avvertendo che le forze di sicurezza sono pronte a usare la forza contro le nuove manifestazioni annunciate per il fine settimana: «Se volete sostituirmi – ha scandito – dovrete uccidermi».
Dal novembre scorso a Belgrado, in piazza Slavija, si tengono raduni più imponenti di quelli che un quarto di secolo fa portarono alla cacciata di Slobodan Milosevic dopo le guerre balcaniche. La mano rossa insanguinata, simbolo della protesta, a rappresentare il “sangue sulle mani” delle autorità, è già comparsa in oltre 200 città della Serbia in una mobilitazione che dura da mesi e non accenna a placarsi. Il profondo malumore che covava da tempo nella società serba è esploso dopo il grave incidente del 1° novembre scorso, quando la tettoia della nuova stazione ferroviaria di Novi Sad, seconda città del Paese, è crollata all’improvviso uccidendo quindici persone, tra cui due bambine. Quella tettoia, appena ristrutturata da un consorzio di aziende cinesi, è diventata la metafora del malaffare e della corruzione che da tempo inquina la politica serba. La popolazione ha cominciato a scendere in piazza accusando il governo di dare priorità ai progetti di sviluppo rispetto agli standard di sicurezza e di non affrontare la corruzione sistemica che minaccia gravemente lo stato di diritto.
Le dimissioni del primo ministro Milos Vucevic e del sindaco di Novi Sad, Milan Duric, non sono bastate a placare la piazza. I manifestanti hanno chiesto la pubblicazione dei documenti relativi al contratto d’appalto per il rinnovamento della stazione ferroviaria ma il governo non li ha ascoltati, ed è iniziato il rimpallo delle responsabilità. Il consorzio cinese ha spiegato che quel lavoro non rientrava nel pacchetto di ristrutturazioni previsti dagli accordi della “Nuova via della seta” ma è stato smentito subito da alcuni consulenti locali. Nel frattempo, le proteste sono divampate dando vita al più grande movimento sociale di tutta l’ex Jugoslavia, che contesta frontalmente l’amministrazione del presidente Aleksandar Vucic. Una protesta che non è stata innescata dai partiti di opposizione, ma è nata nelle scuole e nelle università e che con il trascorrere dei mesi si è allargata a vasti settori della società serba.
La risposta delle autorità non è stata molto diversa da quella messa in atto di recente dai governanti di altri Paesi dell’Europa dell’est. In Georgia, ad esempio. Le forze di polizia hanno cominciato ad arrestare i manifestanti e a disperdere i cortei a suon di pestaggi e cariche violente. Davanti alla Facoltà di Arti drammatiche di Belgrado gli studenti sono stati aggrediti dagli attivisti del Partito Progressista Serbo (Sns), vicino a Vucic, e una studentessa è stata ferita gravemente a colpi di mazza da baseball. Altre aggressioni violente contro i dimostranti si sono registrate a Novi Sad, a Požarevac e in altre città. Il 16 gennaio, durante un presidio nella capitale, un’auto lanciata a tutta velocità ha investito gli studenti e ha ridotto una ragazza in fin di vita. Il clima di intimidazione non ha fatto altro che alimentare la rabbia ampliando la base di sostegno degli studenti. Gli scioperi continuano a susseguirsi uno dopo l’altro e altri settori della società civile si sono uniti alla protesta, a cominciare dagli agricoltori (storicamente vicini al partito di governo), che hanno promesso di proteggere gli studenti con i loro trattori. A Belgrado la parola d’ordine è diventata “Kuda na protest?” (“Dove si va a protestare?”) ma ormai tutto il Paese è diventato un crocevia di lotte quotidiane che si moltiplicano.
Nei cortei spicca però l’assenza di bandiere dell’Unione Europea: c’è chi ancora rimprovera a Bruxelles la gestione delle guerre nell’ex Jugoslavia e il bombardamento di Belgrado del 1999 ma molti ritengono anche che l’Ue non sia favorevole alla caduta di Vucic perché lo considera comunque un elemento di stabilità in un Paese che si trova pericolosamente in bilico tra l’Occidente e la Russia.
Aleksandar Vucic è saldamente al potere da oltre un decennio, ovvero da quando divenne primo ministro nel 2014 e poi presidente della Repubblica tre anni più tardi. In gioventù è stato ministro dell’informazione nel governo di Slobodan Milosevic ed è riuscito a emarginare l’opposizione con sistemi clientelari e una retorica populista e anti-occidentale che contrasta con le sue azioni sempre più orientate nella direzione opposta. Secondo Tatjana Dordevic, corrispondente dall’Italia per vari media serbi, tra i suoi connazionali è ormai diffusa la sensazione che Vucic sia giunto al capolinea e che il tentativo di organizzare manifestazioni filo-governative (com’è accaduto in febbraio, con i fedeli del presidente mobilitati in autobus e in treno a spese dei contribuenti) rappresenti uno dei colpi di coda di un regime ormai al collasso.
Per delegittimare le manifestazioni di questi mesi Vucic ha insinuato più volte, attraverso il suo profilo Instagram, che le proteste siano in realtà manovrate dalle potenze occidentali decise a rovesciarlo per destabilizzare la Serbia. Sia la Russia che la Cina hanno dato credito alle sue affermazioni avvalorando l’ipotesi di una regia estera dietro le manifestazioni anti-Vucic. Accuse che appaiono quantomeno bizzarre, considerando che l’Ue è rimasta a lungo in silenzio di fronte a quanto stava accadendo a Belgrado spingendo qualcuno – anche all’interno dell’Europarlamento – ad accusare Bruxelles di anteporre gli interessi economici ai diritti umani e alla democrazia in Serbia.
«C’è chi ritiene che la mancata risposta dell’Europa sia dovuta al fatto che nel luglio scorso Vucic ha sottoscritto con l’Ue un partenariato strategico per la fornitura di materie prime – in particolare il litio – sfruttando una contestatissima miniera acquisita dalla multinazionale anglo-australiana Rio Tinto nella valle del fiume Jadar», spiega Andi Hoxhaj, docente di legge al King's College di Londra, secondo il quale «le proteste hanno dimostrato che la comunità internazionale ha l’interesse a sostenere Vucic perché lo ritiene un partner costruttivo per la cooperazione regionale e per la stabilità nei Balcani occidentali».
Ma anche quando ha iniziato a prendere posizione Bruxelles ha dato una risposta timida e ben lontana da quando aveva fatto, per esempio, di fronte alle proteste in Georgia. Dopo mesi di silenzio, la commissaria europea per l’allargamento Marta Kos ha pubblicato una lettera aperta per chiedere un’indagine rapida e imparziale sugli incidenti che hanno preso di mira i manifestanti in Serbia, esprimendo preoccupazione per le aggressioni della polizia contro gli studenti. Poi, nel corso di un dibattito svolto alla presenza dei membri dell’Assemblea nazionale serba, ha ribadito l’impegno della Commissione europea a seguire da vicino gli sviluppi politici in Serbia.
I manifestanti non intendono accettare soluzioni di compromesso che non prevedano riforme democratiche capaci di rafforzare realmente lo stato di diritto in Serbia. E continuano a radunarsi e a marciare quasi ogni giorno. Per sabato 15 marzo si prepara un’altra grande manifestazione nella capitale: gli organizzatori hanno fatto sapere che sarà la più imponente di tutte quelle svolte finora. Il presidente Vucic, dopo aver fatto appello al dialogo sostenendo di aver già soddisfatto le richieste degli studenti, adesso ha cambiato completamente approccio alla crisi e, in un discorso alla nazione, ha dichiarato che sabato a Belgrado si aspetta «una violenza su vasta scala», denunciando una radicalizzazione della protesta sostenuta dalle opposizioni.