IL GRANDE DEBITO L'handicap dei conti ha radici lontane. In decenni di spese allegre si sono accumulate passività per oltre 20 miliardi. Nel 2008 il debito pregresso è stato parcheggiato fuori bilancio: oggi restano da pagare 13 miliardi che impegneranno i contribuenti romani e italiani a versare maxi-rate da 500 milioni di euro l’anno per un altro ventennio, se basterà. L’operazione avrebbe dovuto almeno sgravare i conti del Comune. Tuttavia dal 2009 in avanti si è accumulato un nuovo buco da circa 1 miliardo di euro, in gran parte alimentato durante l’amministrazione Alemanno. Nel 2014 con il decreto 'Salva Roma' il governo ci ha messo un’altra toppa al prezzo di un severo piano di rientro finanziario (in parte addolcito dal riconoscimento di 110 milioni l’anno per le spese legate al ruolo di capitale) e di un semi-commissariamento del Campidoglio. La conseguenza è un piano di tagli, spiega Marco Causi (Pd), ultimo assessore al Bilancio della giunta Marino, che ha ridotto i servizi e quasi azzerato le spese per investimento, mentre le grandi infrastrutture pubbliche sono al collasso. Le due grandi municipalizzate Atac (traporti) e Ama (rifiuti), come è noto, hanno a loro volta debiti miliardari, che alimentano il 'rosso' del Campidoglio. IL COLLASSO POLITICO E AMMINISTRATIVO È l’altra faccia dei conti in rosso e degli sperperi. L’inchiesta sulla corruzione mafiosa nella capitale ha coinvolto esponenti delle ultime tre amministrazioni. Un municipio (Ostia) è stato sciolto per le infiltrazioni delle cosche criminali. Nella P.a. c’è un assenteismo record, gli immobili pubblici sono stati in buona parte regalati a chi non ne ha diritto, le multe fatte non vengono riscosse, sugli autobus il 40% non paga. La tassa per la spazzatura costa il 50% più della media nazionale ma l’indice di soddisfazione è il peggiore d’Europa. Un intreccio perverso tra malaamministrazione e tassazione vorace, la più alta d’Italia a livello locale. Elemento che – insieme alla mobilità da terzo mondo – scoraggia pure gli investimenti privati. È possibile affrontare problemi così complessi e radicati con mezzi ordinari? Con il sindaco di Roma che ha gli stessi poteri di quello di una città di provincia, il gigantismo dell’apparato (25mila dipendenti diretti, oltre il doppio con le partecipate) e l’enorme estensione territoriale sono un problema in più. L'economia di scala qui ha funzionato al contrario: più sprechi e non più risparmi, minore responsabilizzazione dei dirigenti, minori controlli e più occasioni di impunità nel contesto di un grande scambio clientelare di piccoli e grandi favori. Il Comune di Roma ha 2,8 milioni di abitanti disseminati su un’area di 1.300 chilometri quadrati, più ampia della provincia di Napoli e grande quasi come quella di Milano. Il territorio è suddiviso in 15 municipi, ognuno con il suo minisindaco e la sua giunta. Strutture che costano, ma senza autonomia finanziaria e con poteri scarsi. Il più grande municipio (Cassia-Flaminia) è esteso come tutta Milano e arriva fino al lago di Bracciano, a 35 chilometri da piazza Venezia. Il più popolato (Appio-Cinecittà) ha 300mila abitanti, poco meno di Catania: se fosse autonomo sarebbe l’undicesimo in Italia. Molti municipi inglobano realtà diversissime: pezzi della città storica, borgate, zone residenziali, grandi complessi commerciali, aree agricole. LA GOVERNANCE Un altro elemento di sofferenza riguarda dunque l’assetto istituzionale. Gianfrano Polillo, l’economista ex sottosegretario al Mef con Monti, parla di un 'asfittico sistema romano, all’insegna di un piccolo municipalismo che non trova riscontro nelle altre capitali'. Uno che conosce bene la macchina capitolina, Walter Tocci (ex vicesindaco di Francesco Rutelli, oggi parlamentare), ha proposto di abolire l’attuale Comune di Roma, una struttura «insieme troppo grande e troppo piccola», trasformando i municipi in Comuni autonomi e affidando alla nuova Città metropolitana (eventualmente promossa a Regione) il governo dell’area vasta. Quasi un milione di romani vive nei territori comunali esterni al Grande raccordo anulare. Forse queste 'non città' distanti 20 chilometri dal centro non hanno le stesse esigenze dei quartieri antichi. Da maggiore autonomia tutti i territori potrebbero ricavare più responsabilità, capacità di controllare il territorio e di avvicinare amministratori e amministrati. Mentre l’ente metropolitano potrebbe dedicarsi (se avesse le risorse) ai grandi nodi strutturali che soffocano l’area urbana. Del resto in Europa nessuna grande città è organizzata come Roma. Nel continente, per estensione solo Londra (1550 km quadrati) supera di poco la capitale italiana, ma ha il triplo dei residenti. Nella metropoli inglese, il sindaco si occupa delle grandi scelte ma l’amministrazione di base (scuole primarie, rifiuti, servizi sociali) è assicurata dai 33 boroughs, che hanno poteri ben più incisivi dei municipi capitolini. Come popolazione Roma è più simile a Berlino. Ma la capitale tedesca non è solo un Comune è anche un Land tedesco, una città-stato. Parigi è un Comune-distretto molto compatto, centro di una (recente) città metropolitana con 130 comuni limitrofi, e di una regionecapitale, l’Ile de France, più piccola del Lazio ma con 12 milioni di abitanti. Modelli diversi, ma ovunque il rapporto tra territorio, popolazione e poteri amministrativi pare più calibrato. Il varo delle 12 città metropolitane italiane permetterebbe in teoria anche a Roma di andare verso un nuovo modello. Purtroppo la riforma, che dovrebbe essere completata con il referendum costituzionale di ottobre, per ora è monca e si scontra con difficoltà burocratiche, gelosie delle Regioni e la pesante eredità finanziaria delle vecchie Province. Basti pensare che l’ente romano nel 2015 ha fatto segnare uno sforamento record del patto di stabilità, che in base ai meccanismi di automatici di rientro dovrebbe comportare tagli di quasi il 14% del salario dei suoi dipendenti. Invece che un’opportunità l’ennesimo problema.
Debito, burocrazia, interessi: un caso unico in Europa. A pochi giorni dal voto ci si chiede: la sfida può essere vinta oppure la Capitale è condannata a una declinante sopravvivenza. Analisi di Nicola Pini.
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