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Rabbia e maledizioni fiottano dai social come da crepe nel muro dell’invaso di una diga - ANSA
Ha ucciso a coltellate la madre, in un paese della Puglia, pochi giorni fa, per un rimprovero, pare: rientrando tardi non aveva salutato. Ventun anni, fino ad ora Filippo sembrava un ragazzo normale. Non si comprende come un figlio possa uccidere la madre per un nulla. Comunque, subito catturato, ha confessato, e ha ammesso che ci pensava da un po’. Poi ha chiesto perdono al padre, lo ha pregato di non abbandonarlo. Al di là della ennesima tragedia in famiglia, ciò che turba ulteriormente viene dopo la notizia: è la reazione del Web, su qualsiasi social. «L’essere abominevole e feroce assassino doveva chiedere aiuto prima… Ora non serve a niente frignare. Sei un mostro», scrive una tale Carmela. «Fai schifo, evito di aggiungere altro. Sei indegno di essere al mondo», aggiunge Clorina. «Spero che tu possa marcire in carcere con gli scorfani», augura un altro. «Non dovevi nascere», il breve epitaffio di un anonimo. Numerosi naturalmente i «buttate via le chiavi» e «pena di morte».
Un ragazzo che prende un’ascia e si scaglia su sua madre, o sulla famiglia. Accadono assurdità così sempre più spesso. Con una frequenza anzi che ci lascia attoniti, come se tremassero le coordinate stesse del vivere comune. C’erano una volta i mafiosi, i rapinatori, i serial killer – il male fuori da noi. Che ora d’improvviso il nemico possa entrare in cucina ed essere un figlio, un padre, ci pare appartenere a una nuova umanità – che con comprendiamo, che non riconosciamo. Sui social restano le foto di quel ragazzo, di quella madre: e anche lì, tutto pare così normale. Allora ti prende lo sgomento, e, se non smetti di pensarci, l’angoscia ti ammutolisce.
Quello che non comprendo però è lo tsunami di insulti che dal Web si proietta su questi sconosciuti, incensurati, spesso giovani assassini. Droga, malattia mentale, o la prima che “slatentizza” malattie che altrimenti sarebbero rimaste silenti in un angolo? O, se anche fosse malvagità pura, in quale modo ha potuto maturare? Può forse nascere malvagio, un bambino? In ogni caso qualcosa sfugge alla logica, e talvolta anche alla medicina e alla psichiatria. Siamo davanti a nuove ferocie, e non uniche, ma frequenti, una ferocia che non comprendiamo. Dunque ancora meno capisco la rabbia e le maledizioni che fiottano dai social come da crepe nel muro dell’invaso di una diga. Se non capiamo affatto, se rimaniamo increduli e allibiti, come si può insultare, emettere sentenze di morte, minacciare sinistramente («So io cosa ti dovrebbero fare»). In realtà poi, mentre i parenti delle famiglie colpite non hanno più parole, le parole, e le più contundenti e spietate, vengono dalla bocca di assoluti estranei. Più che un dolore li muove, si direbbe, una viscerale ira, e lungamente coltivata. Non in realtà verso quello sconosciuto pugliese assassino di cui hanno saputo oggi, evidentemente. Sembra un’altra rabbia, silenziosamente covata: una frustrazione segreta, un senso bruciante di ingiustizia – vera o immaginaria – subìta. L’odio che fiotta dalle pagine del Web sembra non legato a questa o quella circostanza, ma piuttosto criptico: una sostanza che gira nel sangue, senza manifestarsi, o magari attendendo un’occasione in cui possa venire alla luce decentemente, nel ribollire di una collettiva indignazione. E tutto questo può essere quasi inconsapevole. Chi scrive di un assassino «che marcisca con gli scorfani» si sente magari un bravo cittadino. Personalmente, se aprendo per sbaglio la pagina Facebook di un figlio incontrassi questo odio, ne sarei raggelata: perché tanta voglia di maledire? mi chiederei. Cosa gli abbiamo fatto?
Ma una seconda domanda, e non minore, in questi tempi di guerra come sospesa, sia pure da lontano, sulle nostre teste, mi si pone. Parliamo quasi tutti di pace, nei sondaggi gli italiani sono in maggioranza pacifisti, si affollano le piazze per la pace. Di quale pace però stiamo parlando, mi chiedo. Che pace c’è in noi, se in tanti, nell’anonimato del Web, mostrano una rabbia e un odio che non si vergognerebbero a dire a un confessore, qualora ci andassero. Chi grida a un perfetto sconosciuto «Sei un mostro, non dovevi nascere», non porta in sé già il marchio maligno della disperazione? La guerra, quell’anonimo writer che lascia graffiti sui muri dei social, non ce l’ha già dentro? È questo che mi preoccupa: che la guerra, in realtà, non venga da fuori, ma possiamo averla già nel cuore.