giovedì 26 gennaio 2012
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​Caro direttore,
sono un giovane da poco laureato in Fisica, sto facendo un dottorato e mi scopro costretto a emigrare per "cercare futuro". Vedo l’enorme difficoltà a trovare un lavoro in Italia, molto più grande di quella che aveva la generazione dei nostri genitori, e inoltre ho la sensazione che tutti i contributi che oggi sto dando allo Stato non serviranno per la mia futura pensione, ma servono per contribuire a fronteggiare l’enorme debito dello Stato stesso... Nonostante ciò non mi scoraggio, mi rimbocco le maniche e farò quello che servirà per andare avanti. Voglio però dirle che tra i miei coetanei si percepisce chiaramente l’ingiustizia che stiamo subendo. Il debito italiano è stato creato per diversi motivi, non ultimo quello di aver concesso nel passato a tanti quel privilegio ingiustificato e ingiustificabile che sono le "pensioni baby": grazie alla legge restata in vigore fino al 1992, a lavoratori con meno di 50 anni è stata data la possibilità andare in pensione. Si hanno quindi casi di persone che a 30 anni sono andati in pensione versando allo Stato, nella loro breve carriera lavorativa, anche meno di 30 milioni di vecchie lire. Ogni anno questo ci costa almeno 9 miliardi e mezzo di euro. Molte di queste persone hanno, inoltre, continuato a lavorare percependo, oltre alla pensione, un secondo stipendio. Io non mi tiro indietro, sono pronto a caricarmi le mie "fatiche", ma mi chiedo perché mai noi giovani dobbiamo fare sacrifici per "pagare" gli errori di una classe politica che, per incassare voti, ci ha rovinato il futuro facendo concessioni inaudite? Perché, in una prospettiva di risanamento che rispetti l’equità, il governo Monti non ha instaurato un contributo di solidarietà a carico di questa vasta categoria di "fortunati"? La ringrazio dello spazio, e complimenti per il suo lavoro.
Carlo Motta

 

Il senso di ingiustizia che pervade lei e i suoi coetanei, caro dottor Motta, lo condivido con la passione che può metterci un padre. Un padre ultracinquantenne. Un cittadino-contribuente che, anche per il lavoro di cronista che fa, aveva avuto modo di capire già qualche anno fa (cercando di spiegarlo in tutti i toni e in diverse occasioni) che non gli sarebbe toccato alcun privilegio pensionistico, anzi... Vorrei insomma dirle che, lei e io, siamo più o meno sulla stessa barca. Alla sua generazione, come alla mia, tocca infatti di cominciare a pagare il prezzo di grandi e piccole incoscienze e leggerezze del passato. Un prezzo pesante. Ma lei – che è appena più grande delle mie figlie – sta ben peggio di me, perché io ho un lavoro: un buon lavoro, un lavoro nella terra italiana in cui sono nato e, per di più, il lavoro che sognavo da ragazzo (e so di stare molto meglio dei miei coetanei che hanno perso il posto e che faticano tanto quanto lei, e persino di più, a ritrovarne uno decente...). Credo che non ci si debba mai arrendere. E ammiro chi è pronto a fare la valigia, avendola fatta varie volte nella mia carriera. Ma penso che "fare la valigia", anche solo all’interno della propria patria, debba essere una scelta di libertà e non un obbligo amaro. Per questo condivido profondamente il senso d’ingiustizia che lei prova: non è possibile, mi dico spesso, che noi che abbiamo messo (e mettiamo) al mondo meno figli non ci rendiamo conto che quei figli li stiamo "espellendo" addirittura dalla speranza di potersi costruire un futuro in Italia e dalla convinzione di poter dare un futuro degno all’Italia. Ecco perché apprezzo chi sta facendo, al timone della barca in cui siamo tutti, ciò che è indispensabile per evitare un naufragio che non risparmierebbe proprio nessuno: né i privilegiati di ieri (e di oggi) né chi di privilegi non ne ha e non se ne aspetta. E vengo alla sua domanda finale. Vedo che per evitare il «male comune» si sta chiedendo qualcosa a ogni categoria. E so che chi più ha – e chi più ha avuto – deve contribuire maggiormente allo sforzo. Ritengo perciò anch’io che sarebbe giusto chiedere ai baby pensionati che hanno un nuovo lavoro di partecipare, secondo criteri equi, alla fatica di far quadrare i conti.

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