martedì 20 gennaio 2009
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Caro Direttore, se ancora giovedì 15 avevo qualche dubbio, dal giorno successivo sono convinto che la storia di "padre Felice" del Secolo ligure è stata una gran "bufala". Il pensiero si era già fatto avanti qualche giorno prima, quando i responsabili del sito Internet del Secolo XIX non hanno pubblicato nel forum dei commenti pubblici la mia opinione, logicamente contraria alla linea della redazione. Perché riferire una voce, se si è a posto? Rimane un mistero l’identità del – presunto – padre Felice. Sarebbe stato più lineare fornire il nome del sacerdote o querelare chi ha messo in dubbio la veridicità della testimonianza. Nulla di tutto ciò. Solo il tentativo di mettere fuori strada il lettore. Per quale ragione, altrimenti, a supporto della "sua" verità, il Secolo XIX avrebbe cercato di 'gemellare' il suo "padre Felice" con il sacerdote intervistato da Rai3 nella trasmissione "Racconti di vita" di domenica scorsa? Perché, non contento del polverone sollevato, pubblicare le dichiarazioni di un ex prete, settantenne, continuando a definirlo "don" anche se ridotto allo stato laicale e quindi non più impegnato ministerialmente? Abbia pazienza, se torno sull’argomento. Immagino che lei preferirebbe chiudere la storia per lo squallore della polemica mediatica innescata contro Avvenire, ma a me non va proprio giù di veder gettare fango sulla mia Chiesa, sul mio oratorio, sul mio servizio di educatore dell’Azione Cattolica di Genova. In questi giorni troppe volte per la mia appartenenza alla Chiesa ligure mi sono sentito apostrofare per strada, troppe volte ho sentito gente comune parlare di una Chiesa malata, sporca. Basta, con questo gioco al massacro. I ragazzini ai quali dedico il mio tempo di volontariato non meritano questa pubblicità, così ideologicamente falsa ed espressione di un anticlericalismo che pensavo non appartenesse più alla mia terra. Al mio secolo.

Luca Genovese, Genova

Caro Direttore, lei sa già che spesso l’ostacolo che trattiene dall’acquisto di Avvenire è la mancanza della cronaca locale. Il desiderio di mantenersi al corrente su quanto capita nella propria provincia è una molla molto forte per chi ha a cuore le vicende sociali e politiche del proprio territorio e se un giornale è alla portata del mio budget, due sono fuori portata. Così, finora mi accontentavo di acquistarvi la domenica e negli altri giorni provi a indovinare a quale giornale mi rivolgevo, io genovese? Però, ora la misura è colma. Mi sono stufato, come cattolico, di essere sbertucciato in questo modo. Non c’è alcun altro ambito in cui accetterei di pagare per farmi offendere; mi sembrerebbe una 'perseveranza diabolica' continuare col quotidiano. La vicenda di 'padre Felice' mi ha dato uno scossone fortissimo, in un certo senso mi ha svegliato; oggi (14 gennaio) il colpo di grazia con una pagina due col piede dedicato a "don" Barbero – il giornale continua a definirlo così, incurante del fatto che non abbia più diritto alla qualifica, perché ridotto allo stato laicale – che osanna i preti omosessuali, senza che il giornale dica 'et' sulla manifeste incongruenze sui numeri citati. E così faccio il salto. Sto con chi mi rispetta, anche se dovrò pagare il prezzo della rinuncia alla cronaca locale: la sbircerò al bar. Non mi deluda, però: continui a fare un bel giornale, serio, accurato, vigoroso.

Giorgio Caviglia

Rispetto i vostri racconti, cari amici, e non metto lingua nel rapporto vostro con i media locali. Mi sono trovato mio malgrado coinvolto, nella vicenda cui vi riferite, e anche per questo avrei preferito starmene ora in disparte. L’ultima cosa che desidero è dare l’impressione, a questo punto, che ci sia di mezzo qualcosa di personale: no, proprio nulla di personale con chicchessia. Abbiamo discusso animatamente, ognuno ha difeso il proprio punto di vista, qualche elemento di chiarezza nonostante tutto è emerso ed è a disposizione di chiunque lo desideri: ora si guarda avanti, senza rancore. Che poi nella comunità cristiana emergano di tanto in tanto situazioni di sofferenza, noi lo sappiamo. Non siamo così sciocchi da pretendere il silenzio da parte dei mezzi di comunicazione, quando c’è da dare una notizia per noi scomoda. Quello che ci attendiamo, e che crediamo sia nostro diritto pretendere, è che non ci si inzuppi il pane. Che non si enfatizzino oltre misura i fatti; non li si riproponga anche quando non c’è l’impellenza della cronaca; non si facciano allusioni gratuite; non si seminino segnali mafiosi. Intuisco che si vuol screditare la scelta della castità, quale atteggiamento demodé. Abbassando l’unità di misura, tutti possono fare i cavalieri. I colleghi laici però non devono stupirsi che noi cattolici difendiamo i nostri preti. Lo facciamo peraltro con lucidità e profonda convinzione. Senza assolutismi, senza nevrosi. La vita dei nostri preti e dei religiosi si svolge sotto gli occhi di tutti: abitano quasi sempre in case modeste, hanno auto spesso sgangherate, sono a disposizione di chiunque si rivolga a loro per una parola o un aiuto materiale, sono fedeli alle promesse pronunciate al momento della loro ordinazione e testimoniano con coerenza, in condizioni sovente difficili, i valori evangelici. Non raramente sono soli. Passano il loro tempo in oratorio, o tra le aule del catechismo, corrono nelle famiglie appena vi è un bisogno. In canonica magari non c’è nessuno che li accudisca: dai pasti alle pulizie, ogni incombenza è sulle loro spalle. Tutti premono sul loro tempo, tutti chiedono attenzione. Ma chi è per loro? Difenderli – isolando i pochi casi di accertata immoralità – non è un atto di condiscendenza ma di onestà, un dovere dell’intelligenza e del cuore. Tanto più urgente, quanto più loro appaiono esposti e indifesi. Nel corso della mia vita, lo ammetto, mi sono imbattuto in tanti sacerdoti, tante suore, e parecchi vescovi: debbo dire che ho incontrato solamente persone per bene. Un caso? Non credo proprio. Qualcuno può non risultare particolarmente simpatico, ma che significa? Eppure - si obietta - ci sono anche sacerdoti che sbagliano, fanno scelte fuori dal seminato, e smentiscono quello che annunciano. È successo e – temo – potrebbe risuccedere. D’accordo, e – ahimè – dov’è la novità strabiliante? Ma anche in questo caso, perché infierire? Perché farne fenomeni da baraccone? O rappresentarli come se chi sbaglia fosse il modello, il prototipo di prete che copre e schiaccia tutti gli altri? Alla fine, se ci si pensa, sono persone che in mezzo a noi danno la vita per gli altri, e la danno anche per quanti se ne fregano di loro. Con ciò non intendiamo mettere la mordacchia a chicchessia. Se però con le nostre scelte di tutti i giorni, anche quelle che comunemente si fanno all’edicola, stiamo imparando a «difenderci», nessuno se ne stupisca. Esattamente come nessuno può pretendere che gli altri si comportino da allocchi, soltanto per compiacere qualche suo proprio interesse.

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