Il Giubileo e i vecchi schemi che non funzionano per i nuovi giovani

Riportando ininterrottamente al 2000 quanto vedevamo, abbiamo rischiato di rubare ai ragazzi il loro momento. Ma questa è una generazione che sa stimare gli adulti anche nelle loro scompostezze
August 6, 2025
Il Giubileo e i vecchi schemi che non funzionano per i nuovi giovani
Fotogramma | La Messa presieduta da papa Leone XIV al Giubileo dei giovani
Abbiamo rischiato di rubare ai giovani il loro Giubileo. Riportando ininterrottamente al 2000 quanto vedevamo, ad esempio: alle nostre emozioni, ai numeri, alle parole e persino al Papa di quella notte a Tor Vergata che per loro è preistoria. «Noi c’eravamo»: venticinque anni fa non avevamo genitori che potessero dire di sapere, di averlo quasi già provato per noi. Persino nei canti, nel rito, nelle parole poste sulle loro labbra si sono come trasferite le espressioni di allora, nella generica convinzione che il cuore giovane sia sempre lo stesso, prima di lasciare spazio e di fare come il vuoto, in ascolto. Grazie al cielo, questa è una generazione, a ogni latitudine, tutt’altro che rivendicativa, libera fino al punto di stimare gli adulti e di apprezzarne persino le scompostezze, quando vibrano di autenticità. Non ideologici, terribilmente concreti, disincantati quanto serve, non sembrano essersi fatti rubare il meglio, cogliendo nella memoria calda di chi li ha preceduti e nelle domande che loro non avrebbero formulato in quel modo il fuoco vivo di una testimonianza. Sembrano averne guadagnato il loro momento, un incontro nuovo e senza precedenti, non essendo ripetitivo il nostro Dio.
Lo ha detto la loro gioia travolgente: gioia di ragazzi che vedono morte dappertutto, che ascoltano di nuove crisi sin dalla nascita, chiamati ad attraversare l’apocalisse come paesaggio familiare. Hanno fatto festa pur avendo molti drammi nel cuore. Sono i giovani di Laudato si’ e Fratelli tutti, encicliche che è come se conoscessero prima di aver letto, perché hanno tradotto il Vangelo nel loro tempo, la centralità di Gesù in una storia che ha cambiato partitura rispetto al secolo scorso. Loro non si chiedono il senso del tutto, ma come abitarlo; non hanno sogni di dominio, ma voglia di fare qualcosa.
Li ha aiutati un Papa presente, tenero, dai riflessi prontissimi, ma capace quasi di ritrarsi. Nelle espressioni del suo viso, che dalla sera dell’elezione le telecamere ci avvicinano, vi sono commozione, umiltà, timore e stupore. Ancora una volta: autenticità. Ed è la chiave, la nuova unità di misura del bene per una generazione assuefatta alle idealizzazioni e ai ritocchi. La ricerca della verità, per i giovani del 2025, non muove dal problema dell’errore ma dalla stanchezza per la finzione. Per questo hanno amato papa Francesco, che proprio nei suoi modi ha riaperto verso la Chiesa di Roma un credito di fiducia. “Verità” ha per loro quel volto e la radicalità della sua opzione per chi non è visto, per le persone e i temi di confine. Anche se forse qualcuno può storcere il naso, Leone era fino a sabato, semplicemente, il suo successore, l’erede di quel riscatto della Chiesa dai propri scandali e da recinti dottrinali troppo umani. Ora per questi giovani è lui il Papa, un padre riconosciuto e circondato d’affetto, alla guida di una famiglia tribolata ma più unita di questo mondo a pezzi.
Chi ha vissuto il Giubileo della speranza è ormai parte della profezia di un’umanità riconciliata. Si sono scambiati bandiere, oggetti, messaggi – come in ogni Giornata mondiale della gioventù, qualcuno dirà – ma nell’ora del riarmo, fra persone da Paesi nemici: non è semplice romanticismo. È conversione. È il potenziale critico della fede cristiana, interiorizzato da una minoranza creativa e dinamica dei nati nel terzo millennio. In molti hanno notato che, a differenza di come li si descrive, questi ragazzi e ragazze sanno dimenticare lo smartphone più a lungo dei loro preti e dei loro genitori, passano rapidamente dal chiasso alla più intensa concentrazione, hanno un senso del sacro che non richiede appesantimenti rituali. Vengono subito al dunque, così come si disconnettono dai vuoti giri di parole e dalle forme senza sostanza.
La loro sorpresa è meno legata ai discorsi che ai gesti. Non ci seguono nemmeno nella retorica su questi giorni: li rielaboreranno a loro modo, anarchicamente allergici alla sistemazione del tutto, indisponibili a novecentesche organizzazioni del senso.
Non sembriamo affatto pronti a questo, ma riuscissimo a non portarli nei nostri schemi avremmo comunità che si risvegliano, un senso missionario meno istituzionale, un cristocentrismo meno ripetitivo. Saremmo cioè aiutati a incontrare il Risorto nella cultura in cui ci aspetta e che, come estranei, resistiamo ad abitare, perché inedita. È la più antigerarchica delle culture – e per questo potenzialmente anche tentata da derive autoritarie – in cui, 1.700 anni dopo l’abbraccio di Costantino, la via dei cristiani può rinunciare a farsi imperiale, per essere giovane, come giovane è il suo Signore. Così giovane da continuare a venire crocifisso, là dove la vita pulsa e la libertà interroga lo status quo: quello dei pochi, cui il milione di Tor Vergata oppone, come un piccolo seme, l’ampiezza del «tutti, tutti, tutti». Apocalisse è il sofferto avvicinarsi della città dalle porte sempre aperte, in cui non sono più notte, né lutto, né lacrime. Il presentimento di esservi nati i giovani del Giubileo lo portano ormai con sé, in tutte le direzioni. E forse è bello renderci conto che a essersi rimessa in moto è la “tradizione” che più conta. Allora sarà la pace – figli, genitori e domani nonni –: poter cantare gli stessi canti e aver dormito, pregato, amato sulla stessa terra, nella stessa città.

© RIPRODUZIONE RISERVATA