sabato 9 aprile 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Sbagliano le migliaia di ragazzi che manifesteranno oggi in alcune piazze italiane contro il precariato? Certamente no. Dal lavoro alla previdenza, passando per gli ammortizzatori sociali, la generazione dei 20-30enni è sicuramente penalizzata.Con l’esplodere della crisi si è trovata schiacciata tra una flessibilità che non funzionava più da canale d’ingresso nelle imprese e l’assenza di sostegni al reddito.La spesa (ingente) impegnata per la cassa integrazione ha protetto bene i padri, i dipendenti, ma ha fatto sì che le porte delle aziende fossero ancora più sbarrate per i figli, per chi era fuori dalla cittadella fortificata. I tagli ai bilanci pubblici e privati hanno prosciugato anche quei pochi rivoli di fondi che garantivano qualche mese o un anno di stipendio ai vari co.co.co., contrattisti a termine, supplenti e ricercatori in attesa di «sistemazione definitiva». Tutto ciò mentre un numero sempre più elevato di aziende «creava valore» sostituendo un dipendente con uno stagista. Salvo poi pagare milioni di buonuscita a qualche manager. E così chi oggi ha 30 anni non trova un’occupazione corrispondente al suo titolo di studio, fatica ad essere autonomo, a formare una famiglia, non risparmia, già sa che maturerà una pensione inferiore a quella sociale.Tutto vero, tutto tristemente vero. E i giovani – al di là delle inevitabili strumentalizzazioni politiche – fanno bene a denunciarlo in piazza. Dovrebbero gridarlo sui tetti. Se ancora fossero maggioranza, come nel ’68, ci sarebbe una «rivoluzione». Ma difficilmente avverrà.Anzitutto perché i giovani sono sempre meno – appena il 10% della popolazione italiana – l’elettore mediano ha 48 anni e la metà degli iscritti al sindacato è pensionato. Ma soprattutto perché, al di là di qualche provvedimento utile (e però parziale), il problema del precariato dei giovani si può risolvere solo con un cambio radicale di mentalità e se l’intera popolazione sarà disposta a pagarne almeno una parte del prezzo.Come? Riscrivendo il patto tra le generazioni. Il nodo è che la struttura economico-sociale che ci siamo dati negli ultimi 50 anni non regge più sotto la spinta della globalizzazione, dei cambiamenti demografici, della rivoluzione informatica, basata com’è su schemi rigidi e costruita quasi interamente a debito. E oggi non è più in grado di assicurare a tutti i diritti e le tutele che ha promesso largamente e di cui ancora «godono» le generazioni dai 40 anni in su. Come la sostanziale inamovibilità dal posto di lavoro, la cassa integrazione anche per decenni legata a un’occupazione ormai improduttiva o un assegno pensionistico versato per 30 anni dopo appena 36 di contributi. Assieme all’illusione che ci sia più bisogno di giornalisti che di falegnami, di archeologi che di operatori socio-sanitari, che i primi valgano più dei secondi. O che basti avere un titolo di studio purchessia per avere «diritto» a un lavoro ben remunerato.La realtà è che – fatti salvi quelli fondamentali, fissati nelle costituzioni – la parola «diritto» andrebbe sostituita nel nostro vocabolario politico da «opportunità». Ed è questo che i giovani oggi in piazza dovrebbero pretendere, senza seguire vecchi schemi: avere (pari) opportunità di studiare, per merito anche se non vengono da famiglie benestanti. Di lavorare, senza essere sfruttati perché la loro flessibilità serve a compensare la rigidità di altri. L’opportunità di avere una casa a costi agevolati. Di contribuire davvero con la loro creatività, i talenti di ognuno, a modificare la società. Avere l’opportunità di coltivare un progetto di futuro. Che è il loro, ma è anche quello di tutti noi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: