Fra decibel e strategie, è il tempo di portare a casa qualche risultato
giovedì 29 giugno 2023

Sovente, nella vita, si alza la voce per camuffare le difficoltà che ci sono. Alla vigilia del suo quarto Consiglio Europeo, forse il più denso per temi sul tavolo, ieri alla Camera Giorgia Meloni ha alzato il livello dei decibel, riesumando a volte i toni “di una volta”, da comiziante leader dell’opposizione piuttosto che quelli confacenti a un capo di governo. Un antipasto dello spirito battagliero con cui stamani volerà a Bruxelles? Nell’attesa di annunci su esiti auspicabilmente sorprendenti al vertice, la presidente del Consiglio deve stare attenta però a evitare un rischio: quello di continuare a “vendere” agli italiani risultati che, per ora, si stentano a vedere. All’inizio della sua prima estate a Palazzo Chigi, insomma, per la leader di Fdi sarebbe ora di portare a casa qualcosa di concreto.

Perché, altrimenti, i tanti fronti aperti con la Ue (ultimi dei quali quelli, anch’essi dai toni forti, ieri con la Bce di Lagarde e sul Pnrr con il commissario italiano Gentiloni, che fanno seguito agli attacchi al predecessore Draghi) a lungo andare ci si potrebbero ritorcere contro. Specie sul fronte economico, non si contesta qui una certa legittimità dell’impostazione voluta da Meloni premier. Ha delle ragioni nel rivendicare la logica di una trattativa «a pacchetto», sul «metodo» generale, che comprenda l’intesa sulla riforma del Patto sui conti pubblici che ripartirà dal 2024 (la cui attuale impostazione è abbastanza deludente) e il completamento dell’Unione bancaria (cui da troppi anni la Germania si oppone) assieme alle regole di salvaguardia del Mes.

Capitolo, quest’ultimo, dove il centrodestra vuol trasformare, per l’Italia, il “difetto” di essere l’ultimo Paese che non l’ha ratificato in un potenziale vantaggio, in modo da “strappare” qualcosa sugli altri campi. Così come, per ricalibrare i principii di austerità finanziaria, è più che giusto riprendere la battaglia (non finalizzata già dal governo Berlusconi a inizio millennio) sulla “ golden rule” – lo scorporo dal vincolo del pareggio di bilancio per specifici investimenti pubblici – , perché equiparare questi alla spesa corrente rimane un concetto che farebbe inorridire Keynes.

Tutto ciò premesso, dopo otto mesi di attività governativa occorre però stare attenti a non trasformare il “pacchetto” in un “pacco” nel senso napoletano, potenzialmente dannoso per l’Italia. Occorre cioè, anche alla luce dei rapporti di forza esistenti in Europa, cominciare almeno a vedere lo spiraglio di una vera trattativa, che ancora si fatica a scorgere. In questo gioverebbero da parte del governo Meloni – va detto – una proposta strategica complessiva e una politica di alleanze con altri Paesi, che diano forza e sostanza a una linea che, pur partendo da basi valide, al momento sembra abbracciata anche, se non soprattutto, per celare il caos esistente nella maggioranza tra Giorgetti, il ministro dell’Economia che ha aperto al via libera al Mes, Salvini e la stessa Meloni, che del no al vecchio fondo salva-Stati aveva fatto, dall’opposizione, una bandiera ideologica, alzando la voce già allora. Nel nome dell’interesse nazionale l’esecutivo vuole rinviare il voto a settembre. D’altronde è impossibile cambiare ora il relativo Trattato, dopo che tutti i partner comunitari lo hanno approvato.

Non si deve mai scordare però che, senza un qualche primo risultato a breve, da un eventuale braccio di ferro chi ha da perdere – più che ricavare un interesse – è soprattutto l’Italia, col suo alto debito pubblico e con un Pnrr che si stenta a portare avanti, altro fattore che gioca a nostro svantaggio nel momento in cui si fa una battaglia per tutelare investimenti “sani”. Allo stesso modo, sull’immigrazione la premier continua a rivendicare di aver ottenuto dall’Europa un «cambio di passo», incurante di numeri che la smentiscono, con gli sbarchi sulle nostre coste che hanno superato finora le 61mila unità, più del triplo sul 2021. Uno slogan sempre buono per la propaganda interna, di cui si fatica però a cogliere la portata.

Dopo aver ottenuto a inizio giugno un nuovo regolamento sulle migrazioni di difficile attuazione, ieri ha definito «molto importante» la definizione di un piano di aiuti alla Tunisia, sorvolando sul fatto che il presidente Saied ha dato un primo no a una possibile intesa sulla base di poco più di 100 milioni quando Meloni è andata a trovarlo assieme alla Von der Leyen. Inoltre, su Tunisi si continua a demandare l’apporto più sostanzioso al Fondo monetario internazionale, trattando così sul piano strettamente finanziario un tema che invece dovrebbe interrogare l’Ue nel profondo per le tante “corde” che tocca, a partire dalla dignità degli esseri umani. Dietro questo quadro, si agita peraltro l’ultimo paradosso dell’esecutivo Meloni: in un rigurgito ideologico continua a contestare la Ue “finanziaria” – come se non fosse esistito nel 2020 un Recovery plan che ha cambiato l’approccio dell’Unione – e si mostra più europeista che mai sul fronte immigrazione, dove invece gli affanni Ue non cessano davanti a un fenomeno troppo grande da gestire.

L’Europa, insomma, resta un campo sempre valido per lanciare invettive (vedi anche sul rialzo dei tassi, altro aspetto su cui Meloni qualche ragione ce l’ha pure). Ma, una volta depositata la polvere delle polemiche, restano i risultati da portare a casa. È su quelli che il governo Meloni, come tutti gli altri, sarà valutato alla fine.

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