Foibe, il coraggio di chi denunciò i crimini e il bacio che salvò la memoria
sabato 10 febbraio 2018

Caro Avvenire,
sono la nipote del maresciallo Arnaldo Harzarich, il capo dei Vigili del Fuoco di Pola che dal 1943 in Istria guidò le squadre al recupero delle salme degli italiani dalle Foibe, e per questo Medaglia d’oro al Valor Civile. Leggendo l’interessante articolo di Lucia Bellaspiga del 6 gennaio 2018, con l’intervista all’ultimo testimone oculare dello sterminio nelle Foibe, il signor Giuseppe Comand di Latisana (Udine), mi sono passati per la mente, “in corsa” come in un film, i drammatici momenti vissuti da me, allora quattordicenne. Ricordo come fosse ora che lo zio Arnaldo veniva ogni sera a dare un saluto alla mamma. Un giorno però venne mia nonna a casa mia, dato che abitavamo di fronte, e impaurita mi disse: “Vieni con me, Saretta, andiamo a casa dello zio perché ieri sera non è venuto a salutarmi”. Cercava coraggio e allora io ero la nipote più grande, gli altri, tutti maschi, erano molto più piccoli di me. Ci incamminammo fino alla casa dello zio. Entrate nel portone e fatta la prima rampa di scale, ci accorgemmo subito che qualcosa di gravissimo era successo. La porta d’ingresso era aperta, la finestra della cucina spalancata, tutto il resto era in perfetto ordine. Si riusciva a capire solamente che lo zio, con la moglie e la figlia erano usciti precipitosamente dalla finestra, che per fortuna dava su un terrapieno dove si teneva la legna, e là abbiamo trovato la scala con cui erano fuggiti. Siamo andate via con tanta angoscia nel cuore e, naturalmente, abbiamo pensato al peggio: erano tempi in cui gli italiani venivano rastrellati di casa in casa e sparivano nel nulla. Solo molto tempo dopo abbiamo saputo che lo zio era stato aiutato a fuggire da Pola dai servizi segreti del Governo militare alleato che comandava a Pola, perché l’Ozna (la polizia politica segreta di Tito) lo stava cercando per ucciderlo e aveva posto una taglia sulla sua testa di 50.000 lire, vivo o morto. Dell’esistenza delle Foibe come luoghi di sterminio non si doveva sapere e invece lui, con il suo coraggio e quello dei suoi commilitoni del 41° Corpo dei Vigili del Fuoco di Pola, aveva fatto sì che i crimini dei comunisti titini venissero scoperti e che ai poveri resti che si potevano recuperare fosse data cristiana sepoltura. Però ancora non era finita: da anni viveva ormai esule a Merano, ma l’Ozna lo rintracciò anche in Italia e di nuovo provò a eliminarlo: doveva e voleva assolutamente togliere di mezzo il testimone vivente che aveva documentato uno dei più grandi crimini del comunismo jugoslavo. Un giorno si trovava sull’uscio di casa, in procinto di recarsi presso la caserma dei Vigili del Fuoco di Merano dove ora prestava servizio, e si chinò a baciare la moglie esattamente nell’istante in cui veniva fatto oggetto di colpi d’arma da fuoco che, miracolosamente, non lo colpirono proprio grazie a quel bacio che gli ha salvato la vita. Consegno ad “Avvenire” questi miei ricordi giovanili, sperando possano essere utili come tassello in più per ricostruire una storia ancora troppo sconosciuta, che però sul suo giornale trova spazio, approfondimento, sensibilità. Sono felice che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia letto con emozione l’intervista a Comand e gli abbia conferito il titolo di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Grazie ad “Avvenire” per questo.

Sara Harzarich

Sono passati oltre settant’anni, ma in questa lettera i ricordi scorrono vivi come se tutto fosse accaduto ieri. Una ragazzina di 14 anni che si fa coraggio e accompagna la nonna, e trova la casa dello zio abbandonata in una fuga precipitosa, verso chissà quale destino. Quello zio che era stato testimone dell’orrore delle foibe, e per questo era ancora perseguitato e veniva inseguito: perfino in Italia, con una taglia sulla testa, perché quell’uomo doveva tacere per sempre. Fu salvato da un bacio alla moglie, miracolosamente, da quel chinarsi di un istante mentre qualcuno lo aveva nel mirino. Sono queste le testimonianze di cui abbiamo bisogno, delle foibe come della Shoah: i racconti di chi c’era, e ha visto, e può raccontare i fatti con la forza di chi conserva negli occhi immagini indelebili. Sono queste le parole vive che riescono a trasmettere ciò che è accaduto a coloro che non c’erano. Ed è importante che uomini e donne così ricevano dal nostro Presidente della Repubblica alte onorificenze, come con la consegna delle insegne di commendatore a Giuseppe Comand testimone oculare degli eccidi nelle foibe, e altissimi onori, come con la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Oggi abbiamo ancora dei testimoni, a tacitare la malignità bugiarda dei negazionisti, di coloro che minimizzano e insinuano che la verità è un’altra. Ma, quando la generazione degli anni della guerra sarà scomparsa? Non sarà più facile allora, a chi vuole riscrivere un’altra storia, menzognera, alzare la voce senza essere smentito? La memoria delle atrocità del Novecento va custodita con cura, va tramandata e insegnata nelle scuole con parole efficaci e non retoriche, perché nessuno possa dire di non sapere. Con parole come queste di Sara Harzarich, fresche e sbalordite come furono i suoi occhi di quattordicenne che assisteva, attonita, alla esplosione del male.

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