sabato 28 marzo 2009
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Caro Direttore, il suo giornale è pieno d’informazioni che mi aiutano a completare il quadro, anche se sono «costretto» a leggere i quotidiani economici dato il mio lavoro. Però il sito lo visito spesso e, quando voglio conoscere il pensiero della Chiesa, leggo le vostre pagine, perché descrivete con obiettività il pensiero del Papa e della Chiesa. Se voglio conoscere il pensiero di qualcuno mi rivolgo all’interessato; mi pare il modo migliore per evitare i rischi della strumentalizzazione e dei «discorsi da bar». Rispetto alla questione della vita, credo anche io che ci debba essere una regolamentazione. Da cattolico ho sempre avuto fiducia nella scienza, che è stata in grado di contenere, se non di eliminare, alcune malattie terribili che hanno afflitto l’umanità. Riconosco altresì che la scienza ha contribuito a semplificare la vita: penso alla tecnologia, all’edilizia e alle tante scoperte che ci hanno dato benessere. Ma la scienza non può viaggiare da sola; per esempio, penso al nucleare e ai benefici della radiologia. Però quando viene usato per realizzare ordigni dal potere terrificante non do la colpa alla scienza, ma al diritto che lo consente, contraddicendo alla propria natura che lo pone a favore della vita. Vorrei sapere perché, se do fiducia alla scienza sempre proiettata verso nuove scoperte, dovrei accettare l’epiteto di «oscurantista», se ammetto che oggi non riesco a decidere quali cure potrebbero non somministrarmi un domani, se mi trovassi in una condizione come quella di Eluana. Mi chiedo: come posso dare per scontato che, in un caso così estremo, nessun medico o scienziato possa fare qualcosa per me? Così sarei davvero oscurantista, perché sarebbe come se negassi a priori la possibilità della scienza di progredire. Qualora, pur in fase terminale, fossi cosciente, mi sembra che già oggi potrei chiedere di sospendere ogni cura che non desse giovamento. Se mi capitasse un incidente stradale (che è una delle cause più frequenti di uno stato vegetativo) io vorrei essere soccorso e rianimato con la speranza di vivere. Dovrei forse dire di non soccorrermi, prima ancora di rifiutare di vivere in questo stato? Ma allora la medicina e la scienza sono un fallimento e ho creduto in un miraggio? Allora che senso ha il lavoro prezioso dei volontari delle Croci che corrono in ambulanza? Io rispetto le scelte diverse, pur non condividendole e come vede, direttore, non ne faccio una questione ideologica o strumentale, ma una questione pratica, anche se sono convinto che Dio è il padrone della vita. Ho, però, notato che sono emerse molte contraddizioni che spero si possano discutere civilmente e democraticamente. Devo dire che sarei molto sollevato se pensassi di poter essere curato così bene da suore o volontari, anche se io non fossi in grado di dare segnali «vitali»: esiste ancora tanto bene al mondo.

Michele

Innanzitutto vorrei dire che apprezzo il suo atteggiamento «laico» nel senso autentico della parola. Per prendere posizione vuole rendersi conto attingendo alle fonti. In materia religiosa questo è particolarmente apprezzabile, considerata l’unilateralità faziosa e acida che caratterizza molto spesso il modo con cui i media riferiscono valutazioni e posizioni proprie della Chiesa e del mondo cattolico. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ma basti per tutti quello clamoroso verificatosi nei giorni scorsi in occasione della visita del Santo Padre in Africa, quando l’attenzione dei media occidentali (e anche di una quota significativa della politica continentale) si è concentrata sulle poche parole con cui il Papa, ancor prima di atterrare in Camerun, ha risposto a un giornalista, ribadendo le convinzioni di sempre sull’inadeguatezza di una lotta all’Aids centrata sulla diffusione dei profilattici. È bastata una frase e le giornate successive, in Camerun e Angola, costellate di incontri affollati e festosi, discorsi profondi e impegnativi, di liturgie solenni e partecipate, sono svanite come nel nulla. Del tutto ragionevole anche il seguito del suo ragionamento. Anch’io come lei apprezzo la scienza, per il bene che ha prodotto e che è ancora in grado di procurare all’umanità, ma non mi aspetto da essa redenzione e salvezza. Queste attingono a un’altra sfera, che la scienza non potrà mai neppure lambire. Così come mi riconosco nel suo non sentirsi in grado di definire con sicurezza, anticipatamente, la reazione a un cambiamento sostanziale dello stato di salute. Le prove, cioè le testimonianze, di tanti malati convergono nel riconoscere che il sopravvenire di una malattia grave modifica i criteri di giudizio e le aspirazioni concrete. Ciò che prima appariva sicuro e certo, dopo, spesso non lo è più. Non siamo meccanismi programmati dal cervello con procedure inesorabili e tassative; siamo persone la cui razionalità è strettamente correlata alla vita emotiva, allo stato psico-fisico, alle relazioni umane che intratteniamo (o delle quali siamo privi). Chi è circondato di affetto e professionalità premurosa non chiede gli si affretti la morte. Confidiamo di avere sempre la forza e la lucidità per condividere o eccepire alla luce del Vangelo e della ragione, nei riguardi di quanti ritengono di procedere prescindendo dal principio di precauzione.
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